Vita e morte, studenti del “Volta” a lezione dal prof. Mantegazza

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Il professor Raffaele Mantegazza durante il suo intervento.
Il professor Raffaele Mantegazza durante il suo intervento.

 

LECCO  – Una appassionante riflessione sulla morte che ha dato consigli su come… vivere davvero. Vi hanno partecipato questa settimana i ragazzi del biennio scientifico del Collegio Volta di Lecco nell’ambito della rassegna “Leggermente”.

Collegio-Volta_Mantegazza_Leggermente (2)Un tema indubbiamente complesso e impegnativo che il professor Raffaele Mantegazza, docente di Scienze dell’educazione alla Bicocca, ha saputo rendere estremamente accattivante e stimolante.

“La morte è il grande non detto della nostra cultura. Il paradosso è che è l’unica cosa certa della nostra vita”. Con queste parole d’esordio il professore ha subito voluto mettere le cose in chiaro, sottolinenando come la nostra società sia la prima a non parlare di morte, ad averne fatto un tabù, a non considerarla un tema educativo.

Nel corso della mattinata i ragazzi del collegio hanno letto alcuni testi, eterogenei per epoca ma tutti incentrati sul tema della morte, tra cui un’epigrafe risalente all’antico Egitto, in cui una bambina, in prima persona, lamenta la propria morte ingiusta; un canto del popolo Maya; un passo tratto dalla lauda Donna de Paradiso di Jacopone da Todi.

A partire dal commento del testo, Mantegazza ha saputo sviscerare questioni molto delicate e profonde. “Ogni morte ha con sé un carico di ingiustizia, perché in qualche modo ti costringe a lasciare le cose a metà”, ha affermato. Però non tutte le morti sono uguali: un conto è la morte senza dolore, del vecchio che si spegne “sazio di giorni”, come dice la Bibbia. Altra cosa è la morte per malattia, incidente, suicidio.

Collegio-Volta_Mantegazza_Leggermente (1)Proprio il suicidio ha costituito un punto chiave del suo intervento: le struggenti parole di Jorge Luis Borges, poeta argentino premio Nobel per la letteratura, mostrano come il suicida sia prigioniero di se stesso e, pertanto, sia totalmente solo. “Per essere certi di non esistere soltanto noi, dobbiamo intrecciare delle relazioni – ha chiosato il professore – Se io sono nulla, voglio essere nulla. Invece l’identità è fatta di relazioni con gli altri. Per questo è importante vivere una vita complessa, piena di relazioni”.

La lirica Gli elefanti di Montale ha offerto lo spunto per rispondere alla domanda: come si fa a sapere quando uno è morto? Un excursus storico ha consentito di riflettere sulle diverse concezioni di morte e, per converso, di vita.

Nel Medioevo si moriva in casa: il bambino più piccolo (“che responsabilità straordinaria! Pensate che lezione”) metteva uno specchio sotto il naso del morente; se questo non si appannava, la persona era dichiarata morta. Se dunque il respiro è il segno della vita, la vita è un continuo scambio.

A partire dal Seicento si comincia a morire in ospedale ed è il medico a constatare la morte, praticando con il bisturi una piccola puntura all’arteria femorale. Ciò significa che, filosoficamente, la vita è circolazione del sangue. Oggi ci siamo spinti ancora più in là: una persona è dichiarata clinicamente morta se l’elettroencefalogramma è piatto.

 

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Allora la vita è un insieme di scariche elettriche. E qui il docente si è scaldato: “Una certa medicina – per fortuna non tutta – parla di funzionamento delle persone. Ma le persone non sono macchine, sono esseri in relazione”.

Collegio-Volta_Mantegazza_Leggermente (5)Dopo aver affrontato anche le questioni dell’elaborazione del lutto, con l’esempio delle “lamentatrici” del Meridione d’Italia, e della guerra come momento in cui l’uomo dà la morte all’altro, Mantegazza ha concluso la sua lezione citando Federico García Lorca, il suo poeta preferito. “Se muoio, lasciate il mio balcone aperto”, scrisse il grande intellettuale spagnolo.

E Mantegazza ha aggiunto: “Facciamo in modo di lasciare un segno. La morte può essere il nulla, per chi non crede; ma la vita no. La morte è l’equilibrio dello stagno, la vita è il sasso lanciato, come dice Freud”. L’insegnamento più profondo che ha consegnato al pubblico è proprio questo: sforziamoci di lasciare una traccia, di vivere in modo tale che – dopo la nostra morte – sopravviva un ricordo di noi. Perché per chi vive davvero la morte forse non è l’ultima parola.