Lettera. Sospetta Covid-19: “Mi sento un po’ abbandonata dal mio Paese”

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LECCO – Un’altra lettera attraverso la quale un potenziale ammalato Covid-19 chiede spiegazioni su come poter riprendere, in tranquillità e sicurezza, la quotidianità.
Pochi giorni fa abbiamo pubblicato un’altra lettera nella quale si poneva una domanda semplice: se si è stati ammalati e considerati sospetti Covid-19, trascorsa la quarantena di due settimane, senza la possibilità di fare né test, né tampone, chi stabilisce se effettivamente si è contratto il virus e, ancor prima, che non sia è più contagiosi e quindi si può riprendere la vita “normale”?

E’ il caso di S.P. che in questa sua lettera racconta quanto le è capitato e la situazione in cui si trova, bloccata in un limbo, senza poter conoscere, effettivamente quali siano le sue condizioni di salute.

“Voglio condividere la mia storia perché temo che la mia condizione attuale sia condivisa da molte altre persone in tutta Italia (specialmente in Lombardia) e per questo spero possa suscitare un certo interesse in chi di dovere.

Voglio premettere un importante dettaglio: non mi reputo in alcun modo la classica persona anti-sistema, contro il Governo a prescindere, né tantomeno una fanatica della politica.

Tuttavia, mi sento un po’ abbandonata dal mio Paese.

Dal 27 aprile, dopo aver avvertito un malessere fisico confermato dal termometro che segnalava la presenza di una leggera febbre (37.4), ho contattato il mio medico di base. Non ero preoccupata: un paio di mesi prima avevo avuto i medesimi sintomi, febbre ed un forte mal di gola. “Placche”, e la conseguente somministrazione di un forte antibiotico è stata la diagnosi del medico, ovviamente a distanza, senza alcuna visita, basata esclusivamente sull’esperienza avuta solo qualche settimana prima. Oltre all’isolamento precauzionale nella mia stanza. Per una settimana seguo la cura prescritta, senza alcun effetto.

Passa un’altra settimana con gli stessi sintomi e, inevitabilmente, inizio a temere di aver contratto un’infezione da COVID-19. Come da prassi, o quantomeno questo è quello che mi è stato comunicato, il mio medico decide di segnalarmi all’ATS per sospetto contagio solamente una settimana più tardi rispetto all’inizio della cura con antibiotico, precisamente il 4 maggio.

Da quel giorno, inizia quello che è il mio calvario che, tutt’oggi, è ancora in corso.

L’isolamento lo trascorro nella mia cameretta di casa: vivo con i miei genitori anziani e mio fratello e, per timore possa succedere loro qualcosa, non metto mai il naso fuori dalla stanza, nonostante gli spazi ristretti in cui sono confinata.

Il medico mi comunica che ora la palla sarebbe passata all’ATS, il quale avrebbe dovuto contattarmi per ragguagliarmi sulla mia situazione (soprattutto se e quando poter essere sottoposta al tampone) e sulle procedure da mantenere, domande alle quali il medico stesso, oltre a non avermi mai visitata, non è mai riuscito a rispondere.

Vengo contattata da ATS l’8 maggio e mi viene comunicato che non sanno se farò mai il tampone e il medico, un po’ scocciato dalle mie perplessità, mi risponde “che questa è la procedura”.

Mi dicono anche che giornalmente mi dovrà contattare il servizio di sorveglianza sanitaria, ma ovviamente non ricevo alcuna chiamata.

Nel frattempo contatto nuovamente il mio medico di base per avere aggiornamenti, ma al 13 di maggio ancora non sa dirmi se la richiesta per il tampone la deve inviare lei oppure direttamente ATS. Ci accordiamo per risentirci la settimana successiva e valutare il da farsi.

Venerdì 15, stanca di questa situazione d’incertezza, provo a chiamare i tre numeri indicati da una gentile centralinista: dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto, mi devo purtroppo dare per vinta e rassegnarmi all’incertezza. L’unica informazione che sono riuscita ad avere dalla centralista è che probabilmente la nuova normativa prevede che finiti i 14 giorni d’isolamento senza sintomi, sarò libera di uscire, senza alcun test che appurerà il mio essere contagiosa o meno, ma con una semplice dichiarazione di un medico che, senza visitarmi, mi autorizzerà ad uscire. Ma sono voci che ha sentito.

Nulla di più, nessun tampone, nessuna indagine ulteriore, nessuna spiegazione su cosa avrei dovuto aspettarmi.

Oggi, a pochi giorni dalla fine della mia personale quarantena, ancora non so quali saranno le modalità per il mio rientro in comunità (se ci saranno delle modalità).

A quanto pare, l’ATS dovrebbe darmi il benestare per poter porre fine all’isolamento tramite una loro dichiarazione: ma sulla base di cosa deciderà? Come potrò sapere se ho davvero contratto l’infezione da COVID-19, se sono guarita e non più contagiosa per i miei cari e per la comunità tutta? Come potrà il mio datore di lavoro reinserirmi in totale sicurezza nell’ambiente lavorativo?

Forse l’unico modo sarà effettuare un test sierologico privatamente dal costo di 70€”.

S.P.