Nuovo “capanatt” al rifugio Azzoni, è il 24enne Stefano Valsecchi

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Il rifugio Azzoni, sotto la vetta del Resegone

 

LECCO – Quando la montagna diventa un lavoro, un impegno e un sacrificio: la vita dei rifugisti non è certo “rose e fiori”, tra avvicinamenti estenuanti, weekend affollati e, al contempo, solitudine. Eppure persone (anche giovani) disposte a questo tipo di vita non mancano tra le nostre montagne.

Dal primo di luglio il rifugio Azzoni, sul Resegone, sarà gestito dal giovane Stefano Valsecchi, 24 anni, figlio del precedente “capanatt” Maurizio detto “Ciccio”.

La famiglia Valsecchi era subentrata alla precedente gestione nel 2000: Stefano aveva solo 7 anni. Lo abbiamo incontrato ed intervistato, per chiedergli qualche impressione sul suo lavoro “atipico” per un ragazzo così giovane, ma pur sempre affascinante (anche se siamo stati ammoniti più volte a riguardo: “Sembra bello, ma non avete idea di quanto sia faticoso e frustrante alle volte!!!”).

Nato nel 1992, Stefano è terzo di quattro fratelli e studia Ingegneria Chimica al Politecnico di Milano. Grande appassionato di montagna (che quando riesce vive rigorosamente arrampicando) e di cucina, è forse il più giovane rifugista di Lombardia.

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Stefano Valsecchi, 24 anni (foto tratta dal profilo facebook)

Stefano, tra pochi giorni sarai il gestore ufficiale del rifugio Azzoni al Resegone. Partiamo dall’inizio, com’è andata?
Nel 1999 ero in seconda elementare, ricordo che mio papà tornò a casa e mi disse che forse avremmo preso un rifugio vicino al Resegone. Io ero piccolo, la presi con entusiasmo, in realtà non avevo idea di cosa volesse dire. Poi prima dell’inverno ci annunciò che era diventato gestore di questo rifugio. La prima volta che ci sono stato era gennaio del 2000: ero partito da Morterone con un mio compagno di classe e suo papà, mio papà ci venne incontro a metà strada, ricordo la neve sul sentiero. Faceva freddo! Arrivati su ricordo una grande nebbia, dentro al rifugio c’era solo una signora che beveva il tè vicino alla porta.
Da quel giorno ho iniziato a salire più frequentemente nei weekend con mio papà, ogni tanto aiutavo a sparecchiare i tavoli, avevo 8 anni, ero felicissimo.
A 9 anni mi facevano già fare i primi conti, in matematica sono sempre stato bravo, mentre a 13-14 anni mio papà ha cominciato a farmi fare lavori “da adulti” come ad esempio portare zaini pesanti o dare una mano in cucina.
Nel luglio 2007, avevo 15 anni, sono salito per la prima volta da solo con mio fratello più piccolo: eravamo io e lui a tenere aperto, mio papà non c’era. Ricordo che fu un disastro, sono arrivate molte più persone del previsto! Ma in qualche modo ce la siamo cavata. Di anno in anno i miei compiti al rifugio diventavano più importanti, aiutavo mio papà in tante cose. All’inizio c’era anche mio fratello maggiore che poi decise di andare per la sua strada e aprire un Crotto a Perledo. Da primavera 2014 salgo molto più spesso perché mio padre ha dovuto fare alcune operazioni e fatica a salire; pochi mesi fa mi ha proposto il passaggio di gestione e ho accettato, successivamente anche la Società Escursionisti Lecchesi (proprietaria del rifugio, che ringrazio) ha voluto concedermi questa possibilità. In breve, ecco com’è andata!

 

Rifugio Azzoni_inverno
L’Azzoni in veste invernale

 

Com’è la vita da rifugista dal tuo punto di vista?
Se parliamo di pro e contro ho delle idee, la vita da rifugista in sé è monotona a dire il vero. Parlo di rifugi come l’Azzoni o il Brioschi, quest’ultimo probabilmente il rifugio più duro di Lombardia da gestire: tanti rifugisti raggiungono il posto di lavoro in macchina, ma io per andare a lavorare cammino un’ora e mezza tutti i venerdì, pioggia, neve, brutto o bello, freddo o caldo. Siamo rimasti in pochi a fare questo tipo di lavoro, da un lato mi rende orgoglioso, dall’altro non posso fare a meno di pensare alla faticaccia che richiede.

Vuoi parlarci prima dei pro o prima dei contro del tuo lavoro?
Parto dai pro dai! Sicuramente è un lavoro che poche centinaia di persone possono dire di fare in Italia. E’ un lavoro selvaggio, in un ambiente unico e speciale: alcune sere non troppo affollate durante la bella stagione l’orario del tramonto è uno spettacolo a cui è un privilegio grande poter assistere. Nel mio caso poi questo lavoro mi permette di unire la passione per la natura e la montagna a quella per la cucina, connubio ideale direi!

 

Stefano Valsecchi_rifugio Azzoni

 

E i contro?
Bè, in tanti quando sanno cosa faccio mi dicono: “Eh, ma che figata!”, non hanno idea di cosa vuol dire e vorrei rispondere “Sai cosa vuol dire passare la notte da solo in rifugio a -15 gradi d’inverno?”.
Parto da alcuni dati oggettivi: fare il rifugista vuole dire non avere una vita sociale, o quanto meno esserne tagliato spesso fuori: il venerdì salgo al Resegone e scendo la domenica, il mio weekend è questo, da solo in un rifugio. La giornata può essere affollata ma a dormire spesso sono da solo. In settimana dovrei studiare per finire l’università… Il lavoro mi rallenta inevitabilmente e mi ritrovo sempre indietro: tra spese, organizzazione e stanchezza lo studio procede a rilento. Ci sono tanti lati negativi: lavoro monotono, fisicamente impegnativo, a volte estenuante, anche pericoloso, sbagli a mettere un piede salendo o scendendo e rischi la vita. E poi c’è la gente che viene da fuori, la gente di città, che arriva all’Azzoni e ti chiede cose come la cioccolata calda, o la pizza… Sì, me l’hanno chiesta davvero, erano cinesi.

 

stefano valsecchi_azzoni_inverno

 

A questo proposito, c’è qualche episodio legato alla tua vita da rifugista che vorresti ricordare?
Bè una domenica stavo scendendo dal rifugio per tornare a Lecco, ero nel canale Bobbio e vedo degli escursionisti in difficoltà, o meglio, uno di loro era caduto all’altezza della terza catena e aveva perso i sensi. Io mi sono fermato e ho chiamato il soccorso alpino: ho spiegato all’operatore esattamente dove eravamo, e quando è arrivato l’elicottero li ho aiutati a montare la barella per il ferito. Mi sono sentito in qualche modo orgoglioso, grazie alla mia conoscenza della zona ho potuto aiutare una persona in difficoltà e i soccorritori. Avere un rifugio vuol dire avere un impegno anche morale, è un servizio che si offre e qualche volta, può salvare la vita.