Chi domanda una cura?

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Quando una persona domanda una cura, o come più comunemente si sente dire in campo sociale, chiede aiuto?
La possibilità di porre una domanda di cura presuppone due condizioni tutt’altro che scontate. La prima è che la persona in questione percepisca che qualcosa nella sua vita la fa soffrire; la seconda è che supponga che un altro la possa aiutare.
E’ spesso attraverso questa via che si producono le domande che si rivolgono agli specialisti del campo della salute, anche mentale. Classicamente è la comparsa dei sintomi ad avere la forza per produrre questo movimento. L’ansia, gli attacchi di panico, i pensieri ossessivi, l’insonnia sono solo alcuni esempi di sintomatologie che hanno un effetto evidentemente spiacevole sulla vita dell’individuo. Queste manifestazioni, come si può facilmente immaginare, sono causa di un malessere che il soggetto percepisce chiaramente come fonte di sofferenza. E’ ed proprio questo “sentirsi male” a spingere il soggetto verso una cura.
Il processo che spinge a porre una domanda di cura si può così schematicamente riassumere:

sintomo ————-> sofferenza ————-> interrogazione ————-> domanda di cura

Ma questa non è l’unica via attraverso cui un soggetto può chiedere aiuto. Ci sono forme di disagio che non vengono esperite dalle persone come tali o almeno non subito. A volte l’esordio di queste problematiche è nascosto, silenzioso. Paradossalmente capita anche che la comparsa di alcune pratiche sintomatiche comporti un apparente miglioramento nella vita del soggetto. E’ quanto avviene, per esempio, quando si presentano dei disturbi alimentari quali l’anoressia. Spesso le donne vittime di questa pericolosissima patologia, riferiscono di essersi sentite all’instaurarsi del regime anoressico, molto efficienti, magari di aver migliorato il proprio rendimento scolastico o le proprie prestazioni sportive.
Non diversamente nell’ambito della tossicodipendenza, molto frequentemente all’inizio l’assunzione di droghe o alcool si accompagna, nella percezione del soggetto, ad un miglioramento delle proprie capacità relazionali, un antidoto contro la timidezza.
Sono questo genere di situazioni quelle che, a mio parere, meritano un ulteriore riflessione. Ciò che si osserva è che in questi casi il soggetto arriva a domandare una cura quando la situazione è molto compromessa. Non solo, spesso la domanda che viene infine posta non riguarda tanto una cura in senso psichico, ma riguarda aspetti molto più concreti, reali. A titolo di esempio si pensi alla questione del gioco d’azzardo, è molto più frequente che una persona si rivolga ad un assistente sociale dopo aver perso ogni suo avere, piuttosto che ponga una domanda di cura ad uno psicologo.
Riferendoci allo schema precedente è come se l’assenza della percezione della sofferenza che il sintomo comporta, impedisse l’interrogazione sul senso del sintomo stesso e quindi rendesse inutile la domanda di cura.

sintomo ———> sofferenza —–/——> interrogazione —–/——> domanda di cura

Credo sia necessario a questo punto porre una domanda: cosa si può fare di fronte a queste situazioni? Come porre la questione della cura quando il soggetto stesso non ritiene di necessitarne?
Per affrontare queste domande è indispensabile porre la possibilità che un soggetto, in alcune circostanze, non sia in grado di valutare con proprietà la direzione che la sua vita sta prendendo. Più precisamente dovremmo dire che non è in grado di sentire il proprio bene.
Questa considerazione non è volta a togliere o limitare la libertà di scelta sulla propria vita di un individuo, bensì punta a migliorare se non a conservare la vita stessa. Il terreno su cui ci si muove in questi frangenti è scivoloso e incerto e i parametri con cui misurare i propri atti sono piuttosto arbitrari.
L’esperienza dimostra che spesso alcuni comportamenti palesemente sintomatici, vengano percepiti come tali non da chi li mette in atto, bensì dalle persone a lui vicine: il partner, i familiari, gli amici, gli insegnanti. Sono le persone che stanno accanto ad accorgersi che qualcosa non và.
Quando questo accade si apre a mio avviso una possibilità. E’ come se il lavoro di traduzione, di interpretazione che classicamente il soggetto fa sui propri sintomi e che lo spinge ad interrogarsi sulle motivazioni per cui si comporta in una certa maniera, in queste situazioni lo facesse un altro vicino a lui. Alla difficoltà da parte del soggetto di “leggere” il proprio disagio viene in supplenza la lettura da parte dell’altro che gli è vicino.

sintomo ———->    sofferenza        ———–> interrogazione ———–> domanda di cura
(del soggetto)              (del soggetto)                        (dell’altro)                                 (dell’altro)

 

Dal punto di vista dell’esperienza, si rileva frequentemente che quando un soggetto decide di non curarsi, anche a fronte di patologie severe, il fatto che chi gli sta vicino si accorga prima e si rivolga poi a qualcuno per affrontare la situazione che vede ha degli effetti anche sul soggetto stesso.
Quantomeno così il messaggio di sofferenza muta che alcuni comportamenti portano con sé, non resta inascoltato, ma al contrario gli viene data una parola per esprimersi.
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