Il gioco è una cosa seria. (Seconda puntata)

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Continua la serie di riflessioni sul gioco come strumento privilegiato da utilizzare nella relazione con i bambini, iniziata qualche settimana fa (vedi prima puntata); sia che si tratti, dicevo, di cosiddetti normodotati, sia nei casi via via più difficili dei disturbi del comportamento o di patologie gravi come l’autismo.

Il gioco, affermavo in conclusione, può, quindi, diventare un prezioso strumento di attività psicoeducativa e luogo privilegiato di osservazione da utilizzare nell’approccio e nella presa in carico dei bambini (per es. nei dopo scuola) e in particolare dei bambini “difficili”.

Vi propongo qualche approfondimento, a partire da una suggestione di Fulvio Scaparro, per addentrarci nelle “regole del gioco”.

 

EVOLUZIONE DEL GIOCO NELLO SVILUPPO DEL BAMBINO: COMPETENZE E ABILITÀ NECESSARIE.

CAPIRE IL GIOCO: LA SUA EVOLUZIONE

“Tra le numerose accezioni che il dizionario elenca a proposito del vocabolo “gioco” mi soffermerò su quella meno frequentemente considerata in psicologia: Gioco è il piccolo spazio compreso tra le superfici affacciate di due elementi meccanici accoppiati.
Prendiamo un bullone e avvitiamo sul suo gambo cilindrico filettato un dado. Stiamo tentando un accoppiamento. Se il dado ha un foro troppo ampio rispetto al gambo, o la filettatura si è consumata, diremo che c’è troppo gioco: l’accoppiamento non si realizzerà, i due elementi non riusciranno a collegare, stringere, tenere assieme alcunché. Se il dado ha un foro troppo stretto rispetto al gambo, o la ruggine ha bloccato il dado precedentemente avvitato, diremo che non c’è gioco, l’accoppiamento è impedito dalle ostruzioni nel passaggio. Bullone e dado si accoppieranno solo se sarà mantenuto il giusto spazio tra le filettature dei due elementi. Se vogliamo che sia garantita la ripetizione dell’accoppiamento tra lo stesso dado e lo stesso bullone, dovremo aver cura di quel piccolo spazio, oliandolo, evitando l’ossidazione delle filettature, svitando e riavvitando di tanto in tanto.

Ecco il gioco. Uno spazio. Infinitesimale o enorme che sia, c’è solo uno spazio giusto per un buon accoppiamento. Giocare è tentare, provare, sperimentare, corteggiare, cercare il giusto spazio per accoppiarsi e, una volta trovato, non si può dormire sugli allori. Quello spazio va coltivato, curato, perché fermarsi vuol dire esporsi al pericolo di blocco e di usura. Come non c’è gioco in un carcere di massima sicurezza c’è n’è troppo in un deserto prescrittivo, nell’assoluta mancanza di regole e limiti. In entrambi i casi c’è paralisi, irrigidimento o disintegrazione, dunque debolezza e fragilità.

[…]

Nel gioco facciamo pratica ma acquisiamo anche solidi stimoli teorici, una competenza.>> (SCAPARRO, 1993, pagg. 150-151).

 

L’originale contributo di Fulvio Scaparro1 sulla definizione di gioco è una metafora ricca di suggerimenti.

Alla ricerca di questo “giusto spazio” corrispondono, nel corso dello sviluppo del bambino, diversi tipi di attività ludiche che vanno dalla manipolazione semplice degli oggetti al gioco a combinazione dove si tenta di combinare insieme gli oggetti per forme e dimensioni, passando dal gioco funzionale dove compaiono le prime forme di imitazione e del gioco di finzione, per arrivare al gioco simbolico che fa uscire il bambino dalla gabbia della percezione e del significato letterale.

Prima di arrivare al gioco simbolico e di finzione il bambino passa attraverso varie tappe.

Si parte da una fase in cui, prima ancora della manipolazione, i bambini non hanno neanche un rapporto fisico con gli oggetti, che vengono solo fissati con lo sguardo; hanno comportamenti di auto-stimolazione che non includono i giocattoli; si fissano le mani, si dondolano, agitano mani e braccia.

Inizia poi il periodo della manipolazione e i giochi con giocattoli divengono sempre più complessi ed esplorativi anche se i giocattoli non vengono mai usati in modo convenzionale; li tengono in mano e li osservano, li portano alla bocca, li scuotono e li sbattono; impilano i blocchi e li battono fra loro e allineano oggetti; c’è una, quanto meno, apparente motivazione al controllo del mondo fisico.

Si passa quindi ad un uso più complesso e convenzionale dei giocattoli mettendoli in corretta relazione fra di loro; i bambini cominciano ad includere nei giochi delle semplici finzioni grazie allo svilupparsi della capacità di imitazione differita; il bambino comincia ad essere in grado di rappresentarsi mentalmente gli oggetti; finge di bere portandosi una tazza alla bocca, usa la spazzola sui capelli, unisce i vagoncini di un trenino per poi spingerlo, costruisce case con i mattoncini.

Infine il bambino giunge allo stadio in cui è in grado di fingere di fare qualcosa o di essere qualcuno o addirittura qualcosa con l’intento di rappresentare la realtà. Le finzioni di tipo avanzato includono i giochi di ruolo e una serie di gesti e vocalizzazioni tesi a sostituire oggetti concreti: per esempio il bambino porta la sua mano alla bocca mimando il gesto di bere da una tazza, fa parlare le marionette, usa bambole e pupazzi per rappresentare se stesso e blocchi da costruzione come automobili di cui imita anche il rumore del motore.

In parallelo avviene anche un’evoluzione della dimensione sociale del gioco. Nei primi stadi abbiamo un bambino che appare disinteressato agli altri e impegnato a guardare ogni cosa con interesse passeggero. “Gioca” con il suo corpo e comunque da solo, girovagando, salendo e scendendo dalle sedie o standosene seduto tranquillo, ma voltando le spalle ai compagni.

Poi nel bambino cresce la consapevolezza degli altri bambini, come risulta dal suo modo di guardarli, di guardare i loro giocattoli o le loro attività, anche se ancora non entra nel gioco; si limita a guardare tranquillamente gli altri bambini e, se è il caso, orienta tutto il suo corpo per mettersi di fronte a loro.

Successivamente il bambino comincia a giocare in gruppetti di pari; pur fermandosi ad un giocare a fianco piuttosto che con gli altri bambini, egli comincia ad utilizzare lo stesso spazio e gli stessi materiali simultaneamente con i suoi compagni. Occasionalmente possono essere mostrati i giochi all’altro, possono esserci imitazioni o alternanza di azione tra pari; p.es. un bambino gioca a palla vicino all’altro che gioca con un trenino condividendo con lui lo spazio, o pettina una bambola mentre l’altro la dondola nel passeggino.

Mildred Parten, con i suoi studi del 1932, ha per prima dato rilevanza alla fase della dimensione sociale del gioco appena descritta, in quanto fase intermedia tra il gioco solitario e quello collettivo. Il cosiddetto gioco parallelo si può considerare come la prima forma di gioco sociale o quantomeno una variazione dei propri schemi di gioco verso una maggiore socialità; soprattutto se cominciano ad abbozzarsi l’alternanza di turno, la non letteralità del gioco (le azioni hanno, nel contesto giocoso, significati diversi da quelli che avrebbero in un contesto reale –giocare alla lotta è ben distinto dal lottare) e la ripetizione basata sull’interesse per le azioni in sé più che per i risultati.

Tutto ciò pone le basi per approdare all’ultima fase dove il bambino si impegna in attività che coinvolgono direttamente uno o più pari prevedendo lo scambio informale del turno, il dare e ricevere assistenza e direttive e l’attiva condivisione dei materiali; c’è una comunanza di obiettivi e attenzione riguardo al gioco; i bambini giocano con i blocchi da costruzione scambiandoseli, se giocano con le bambole usano anche quelle degli altri, scelgono i turni in modo formale, per es. facendo le conte.

Questi segni non riguardano, però, solo le dimensioni simbolica e sociale cui abbiamo appena accennato; ma anche quegli elementi come la piacevolezza, la partecipazione attiva, la motivazione intrinseca, la flessibilità, la frequente non-letteralità che identificano le attività di gioco.

 

L’INTERSOGGETTIVITÀ

Occorre ora accennare ad alcuni dei precursori di quelle che saranno le abilità sociali superiori.

Dai primi istanti di vita iniziano a svilupparsi abilità emotive, cognitive, motorie e verbali che occorrono al bambino per relazionarsi e comunicare, e relazioni e comunicazione servono a loro volta per imparare e potenziare queste abilità. Il gioco rappresenta in tal senso un luogo privilegiato dove imparare e sviluppare tali competenze sociali e di intersoggettività.

Il neonato che, sin da subito, comunica con la madre in modo efficace e aumenta in tempi rapidissimi tale competenza, è la prova che tale capacità è innata nel bambino, oltre ad essere il risultato di un’altra predisposizione: quella del genitore. Il bambino è dunque un protagonista attivo in questo insieme di comportamenti giocati con i genitori, e in particolare con la madre, all’interno dei quali vengono usate e si sviluppano le prime abilità di relazione sociale.

Durante i primi 7/9 mesi di vita il bambino è immerso costantemente in una infinità di eventi di tipo relazionale che hanno per protagonisti lui e la mamma, e il cui insieme costituisce l’esperienza intersoggettiva primaria.

Esiste già dalla nascita una dotazione di base che ci consente di svilupparla: la capacità di reagire a stimoli distinguendo tra quelli rilevanti e quelli che non lo sono; la capacità di attivarci sia fisicamente che emotivamente e di rimanere orientati su uno stimolo al fine di percepirne le caratteristiche; l’interesse per il viso umano anche nella attività di discriminazione delle espressioni; la competenza nell’abilità dello scambio di turni, che inizia in questa fase con lo scambio di sorrisi, suoni e sguardi; la capacità di utilizzare più canali sensoriali incrociandoli e integrandoli fra loro.

Verso la fine di questo periodo il bambino ha sviluppato strutture di intersoggettività sempre più complesse; i suoni sono sempre più codificati; cresce l’interesse per gli oggetti e soprattutto per ciò che egli e la mamma possono fare con gli stessi.

E’ proprio in questo periodo che il bambino inizia a spostarsi: nella relazione con la mamma il cambio delle distanze e dei punti di vista possono ora dipendere anche dalla scelta attiva del bambino. Lo scambio sociale si fa sempre più ricco e complesso ed evolve con una innata, costante, potente e grandissima motivazione che lo porta al primo grande giro di boa che lo lancerà in una nuova fase dell’elaborazione di abilità sociali.

Siamo all’incirca tra i 9 e i 18 mesi e il bambino comincia a camminare e a dire le prime parole; questo gli consente di incontrare gli altri soggetti che lo circondano in un’esperienza relazionale che si arricchisce continuamente. Gli orizzonti dei suoi interessi si ampliano al di fuori dei confini di ciò che accade a lui e al suo corpo.

E’ ciò che accade nel mondo che lo interessa sempre di più, e sempre di più gli interessa comunicare i risultati della sua ricerca all’altro.

 

ATTENZIONE, EMOZIONE E INTENZIONE CONGIUNTA

E’ in questa fase che si strutturano precursori importanti per lo sviluppo delle abilità di comunicazione vere e proprie, sia verbali che non verbali. Primo fra tutti è la comparsa dell’attenzione congiunta: il bambino indica con il dito le cose “chiedendone” il nome e osserva la reazione dell’altro di fronte a quelle stesse cose; compie delle azioni e cura che l’altro lo guardi per “vedere” cosa ne pensa. E’ sempre più evidente come il bambino sia preso dal vortice di un circolo virtuoso dove la comparsa di nuove abilità è favorita dalle precedenti e, a sua volta, favorisce le successive. Ma non solo: risulta di grande importanza che nello stesso tempo, in ambiti diversi, compaiano e si sviluppino sempre nuove e maggiori competenze ed abilità, le quali, in sinergia fra loro, costituiscono una palestra di apprendimento e contemporaneamente una fonte motivazionale per il piacere che deriva dalla crescente padronanza del rapporto a tre – il bambino, l’altro e il mondo.

Le abilità sociali riassunte nel concetto di attenzione congiunta crescono di pari passo con quelle in ambito motorio, cognitivo e linguistico, ponendosi alla base del successivo sviluppo dell’imitazione, là dove imitare costituisce una rilevante conquista nella capacità di riconoscere l’esistenza dell’altro in quanto utile ed interessante per sé. Nel rapporto con l’altro il bambino comincia a percepire anche ciò che l’altro vuole – arrivando ad esprimere l’accordo o il disaccordo attraverso l’intenzione congiunta – e ciò che l’altro “sente”- condividendo con lui le emozioni nate da una situazione vissuta insieme attraverso l’emozione congiunta.+

L’imitazione è dunque un ulteriore trampolino di lancio per lo sviluppo sociale, cognitivo e linguistico, oltre che uno strumento fondamentale per quella palestra che sarà il gioco di finzione.

Il bambino, nel suo sviluppo normale, impara, attraverso il dialogo di coppia con la mamma e, via via, attraverso più complesse esperienze di intersoggettività, a riconoscere come uguali o diversi il proprio volere e quello dell’altro, e a confrontare la propria intenzione con il volere o meno dell’altro di aderirvi. In qualsiasi cultura è proprio questo dialogo tra voleri che trasforma il bambino in un essere socializzato.

Un altro degli ambiti che rimane da sottolineare per il rilevamento di correlati comportamentali dell’intersoggettività è lo scambio di turni. Esso nasce già nella primissima fase dell’intersoggettività, che è quella del dialogo di coppia con la mamma, attraverso lo scambio di sguardi, sorrisi, suoni e movimenti. Si evolverà in seguito con l’integrazione di più canali sensoriali per arrivare a comporre un dialogo dai rituali sempre più complessi, ma è notevole e determinante come sin dai primi mesi di vita il bambino dallo sviluppo normale sia in grado di entrare con perfetto tempismo nell’alternanza di conversazione con la madre. Ciò mette le basi per potersi in futuro districare in numerosissime situazioni sociali, di cui la più rappresentativa e diffusa è la conversazione.

Se allarghiamo il punto di vista dal mero sviluppo cognitivo ad una visione più olistica dello sviluppo del bambino che ridia centralità anche a comunicazione, linguaggio e socialità, sfruttando anche l’apporto di approcci che non relegano gli aspetti della socialità a un ruolo secondario nello sviluppo cognitivo, scopriamo come anche il gioco possa essere considerato, oltre che la palestra dove rinforzare abilità e competenze già acquisite, il luogo dove queste competenze posso essere elaborate.

 

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12 febbario – Il gioco è una cosa seria (prima puntata)

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