L’arte della cura

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RUBRICA – CALeidoscopio –

L’associazione tra la genialità e la sregolatezza è entrata da tempo ormai immemore nel immaginario collettivo. Questa immagine sembra associare la figura dell’artista ad una personalità ed ad uno stile di vita fuori dal comune, eccentrico, spesso bizzarro.

A riguardo ogni disciplina artistica può vantare esempi illustri. Solo per citarne alcuni si pensi a Van Gogh che si amputò un orecchio e lo spedì per posta all’amico Gauguin o a E. A. Poe che visse una vita contraddistinta da eccessi d’alcool, droghe e ricoveri negli ospedali psichiatrici.

Stando invece all’interno dei nostri confini voglio citare la grandissima poetessa Ada Merini della cui vita,segnata dall’esperienza dell’ospedale psichiatrico, scrisse pagine di rara bellezza e Carmelo Bene, definito uno dei più poliedrici artisti della storia del teatro mondiale, che definì la sua esistenza “un capolavoro, uno schiaffo in faccia alla vita mediocre e puttana”.

In ambito musicale, dal blues, al jazz, al rock, al rap la lista di esempi è pressoché infinita. Robert Johnson, uno dei più grandi blues-man di tutti i tempi, era convinto di aver stretto un patto con il demonio, il jazzista Charles Mingus durante un concerto con Duke Ellinton rincorse il suo sassofonista con un’ascia perché non era soddisfatto del suo modo di suonare. Per non parlare degli eccessi delle rock star guidate dalla nota triade sesso-droga-rock&roll.

La letteratura di matrice psicologica, ma non solo, ha molto interrogato il legame tra follia e creazione artistica. Le diverse teorie e spiegazioni, nonostante le diversità spesso marcate, concordano su di un punto,vale a dire che l’arte è uno strumento che l’artista utilizza per esprimere qualcosa di sé che altrimenti rimarrebbe inespresso.

Questa osservazione, a mio giudizio incontrovertibile, necessita di una specificazione che riguarda lo statuto dell’opera, del prodotto del lavoro di creazione. Partendo dal presupposto che esso esprime qualcosa dell’artista, a mio giudizio questo può avvenire secondo due logiche distinte. La prima è che l’opera risponda alla volontà dell’artista di esprimere un pensiero, di denunciare un fatto, di sostenere un’idea; nella seconda l’opera è un “sostituto” dell’artista, un vicario che ne fa le veci, come se attraverso l’opera l’artista potesse mostrarsi a se stesso e al mondo.

Benché la differenza tra le due prospettive sia spesso sfumata, anche per via dell’interpretazione che critica e pubblico possono dare delle opere, credo sia utile porre questa distinzione per cogliere la diversa posizione dell’artista nei confronti dell’opera: nel primo caso l’opera è uno strumento, un mezzo che l’artista utilizza per raggiungere uno scopo; nel secondo la produzione artistica è una via, in alcuni casi una necessità,per poter esistere. Questa seconda prospettiva è quella di maggior interesse nel rapporto tra arte e cura.

Bisogna fare anche un’altra considerazione, se è vero che esiste un rapporto stretto tra produzione artistica e follia, è altrettanto vero che la seconda non garantisce della prima, in altre parole non tutte le persone sofferenti sono degli artisti,ça va sans dire.

Ci sono modi in effetti molto meno raffinati per trattare il proprio malessere, ad esempio l’utilizzo di sostanze quali l’alcool o la droga. Frequentemente le biografie degli artisti sono contrassegnate da eccessi di questo tipo. Questo va interpretato, a mio giudizio, come una conferma della sofferenza soggettiva sperimentata da queste persone. L’idea che le sostanze psicoattive possano sviluppare le capacità artistiche,aprire le porte della percezione come scrisse Haldous Huxley, è infatti smentita dai fatti.

Più realisticamente le biografie di molti artisti mostrano che l’utilizzo di sostanze distrugge l’artista più che farlo progredire nella sua produzione. In altre parole ciò che lega la produzione artistica e la sregolatezza degli stili di vita di alcuni artisti è il malessere soggettivo.

Senza forzare troppo il discorso si può anzi pensare alla produzione artistica come una sorta di cura al loro malessere esistenziale. In questo senso la via dell’arte è modo, piuttosto elitario, per esprimere e quindi indirettamente curare il proprio disagio.

Questo pensiero è ciò che sta alla base di un lavoro di cura che svolgiamo all’interno della comunità di recupero per tossicomani e alcolisti gestita dalla Cooperativa Accoglienza e Lavoro di Molteno.

Dal 2007 all’interno della struttura sono stati attivati una serie di laboratori espressivi, di cui il Lab-Art (Laboratorio Artistico) è colonna portante.

L’idea di fondo è che attraverso un canale espressivo alternativo alla parola, si possa dar voce a quel disagio,a quella sofferenza muta che il soggetto sperimenta e alla quale, durante il corso della sua vita, non ha saputo porre un rimedio diverso dalla completa estraniazione prodotta dall’utilizzo di droghe o alcool.

Ci si potrebbe chiedere perché si rende necessario un canale espressivo alternativo alla parola, in fondo, da Freud in poi, la cura del disagio psichico si lega indissolubilmente all’utilizzo della parola. La risposta è da ricercarsi nella gravità del disagio che si deve affrontare. La tossicodipendenza pone infatti, sia il soggetto afflitto da questa patologia sia il curante, di fronte al fatto che la parola si mostra spesso impotente.

Chi ha esperienza nella cura della tossicomania sperimenta che frequentemente il discorso che porta il tossicomane si configura come vuoto o stereotipato, comunque incapace di rendere conto del malessere che il soggetto vive. In queste situazioni l’utilizzo di canali espressivi maggiormente fruibili, contrassegnati da una logica più “immediata”, quale ad esempio la pittura, permette al soggetto di costruire una rappresentazione di sé e del suo disagio altrimenti impossibile.

Si potrebbe dire che di fronte a malesseri muti, quali la tossicomania, l’arte permette la costruzione di una rappresentazione altrimenti impossibile. E’ come se, attraverso la creazione di un’opera, il soggetto potesse dire, a sé e al mondo, “io sono un po’ questo”.

Certo va detto che questo più che essere un risultato è un passo, la testimonianza di un lavoro in corso. Attraverso la produzione di un opera che rappresenta qualcosa di sé il soggetto potrà in seguito, nella cura,interrogare il suo lavoro espressivo cercando una spiegazione che renda conto di ciò che ha realizzato.

Particolare importanza riveste, nei laboratori espressivi, la figura dell’operatore. All’interno della cooperativa ogni laboratorio è sostenuto dal lavoro di un educatore esperto nell’attività proposta. Egli ha il compito di mettere al servizio dei partecipanti sia le proprie competenze specifiche, sia il proprio desiderio nei confronti dell’attività proposta, affinché ogni partecipante possa utilizzare al meglio il laboratorio per esprimere qualcosa di proprio, qualcosa di personale.

Nel 2012 la cooperativa ha realizzato un video dal titolo “farsi un corpo”, a cui mi permetto di rimandare (parte 1 http://www.youtube.com/watch?v=uPZArtH4jUo; parte 2http://www.youtube.com/watch?v=BKZLusex5MI; parte 3http://www.youtube.com/watch?v=bx4DIqL3Su4).

In esso è descritto un progetto artistico a cui hanno partecipato alcuni utenti della comunità. Si tratta, oltre che di una testimonianza in prima persona, di un segno dello sforzo, clinico e teorico, messo in campo in questi anni al fine di sperimentare percorsi terapeutici maggiormente rispondenti alle forme di disagio che quotidianamente incontriamo nel nostro lavoro.

Il video in questione inizia con una frase che voglio riportare qui in chiusura perché credo riassuma efficacemente il motivo per cui abbiamo provato e continuiamo a provare ad utilizzare l’arte nella cura della tossicomania: “diamo voce a storie pesanti, quando le parole non ci sono bisogna inventare qualcosa”.

 

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