Psicologia e Vita. Psicosi Coronavirus

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RUBRICA – Locali vuoti, strade deserte, scaffali dei supermercati presi d’assalto, interazioni sociali ridotte all’osso: siamo in piena sindrome da Coronavirus. Non ci si stringe neppure più la mano quando ci si incontra tra amici, parenti, conoscenti. Figuriamoci l’abbraccio o il bacio che ci si scambiava “prima”.

Sì, perché c’è un prima e un dopo. C’è un solco profondo, in termini relazionali e sociali, tra ciò che era possibile, o opportuno, fare prima dell’impetuoso e drammatico ingresso nel nostro Paese del Coronavirus, e ciò che si può fare dopo. Un solco segnato dal più potente dei fattori emotivi: l’angoscia. Ossia la paura di un nemico che non si può vedere, non è in alcun modo prevedibile, non risponde ad alcuna logica né ad un “senso” (se non la replica indefinita di sé stesso, che è la “logica” di qualsiasi struttura biologica, soprattutto di un virus) e che minaccia indistintamente chiunque.

Ci sentiamo, ed effettivamente siamo, tutti “esposti”. Esposti a qualcosa che, oltre a non essere visibile, non si può combattere, ma dal quale ci si può solo proteggere. L’unico strumento di difesa è la sottrazione all’esposizione, la chiusura, l’isolamento; ci si sente al sicuro laddove non si è “rintracciabili” da un nemico invisibile e sempre, potenzialmente, in agguato. È questo il motore dell’angoscia; che non è paura, come ha ben osservato Heidegger a inizio Novecento e Galimberti non perde occasione di ricordare in tutti i suoi interventi. La paura ha un oggetto definibile e individuabile con caratteristiche precise. È sempre “paura di qualcosa”: un esame, una prova sportiva, il confronto con una figura autorevole, una sfida.

L’oggetto della paura lo si vede ed è qualificabile, articolabile in un discorso, quindi definibile, prevedibile, ed è possibile attribuirgli un “senso”: un esame difficile tenuto da un professore particolarmente severo, una partita delicata con una squadra molto forte, il confronto con un padre o una madre autorevoli in merito a scelte importanti per la vita, ecc ecc.

L’angoscia, invece, non ha oggetto, oppure è generata da un oggetto non definibile, impalpabile, non qualificabile, com’è – appunto – il Coronavirus. In una parola – come abbiamo osservato poc’anzi – “invisibile”, sebbene sia possibile attribuirgli un nome. “L’indeterminatezza di ciò di cui e per cui noi ci angosciamo non è un mero difetto di determinatezza, bensì l’essenziale impossibilità della determinatezza”, scriveva Heidegger. È come essere in una stanza buia al cospetto di un nemico che ci vede, ci attacca ma che noi non possiamo vedere. Paradossalmente quella condizione è angosciosa “in assoluto”, a prescindere dalla pericolosità del nemico che ci attacca.

Sappiamo infatti, tornando al Coronavirus, che l’indice di letalità (dati mondiali dell’OMS) è pari al 2.08%, paragonabile a quello di una “forte influenza” – ci spiegano gli epidemiologi. Ma la sua caratteristica distintiva è l’alta contagiosità. Ed è questo uno dei fattori che genera angoscia: l’essere al cospetto di un nemico molto aggressivo (anche se dotato di armi, fortunatamente, poco efficaci).

Non a caso si parla di “psicosi”. L’angoscia, in psicopatologia, è proprio quella condizione emotiva caratterizzata dal massimo grado di allarme rispetto ad un’origine che non si riesce ad identificare. L’attacco di panico è emblematico in questo senso: il panico origina da dove? da che cosa? verso dove si scappa? in quale luogo si cerca rifugio, protezione e sollievo? Tutte domande che non hanno risposta in chi sperimenta questo stato emotivo. Ed è proprio l’indeterminatezza l’elemento che genera il massimo grado di allarme: dov’è il mio nemico? da che cosa mi devo difendere?

La psicoterapia, in questo senso, è proprio il tentativo di dare una forma, un’origine e un orizzonte a quell’angoscia. Di darle, in qualche misura, un oggetto. E quindi di trasformarla in una paura (o chissà quale altra condizione emotiva), “visibile”, e quindi padroneggiabile nei suoi effetti e modificabile nei suoi presupposti.

Ecco dunque che in questa fase di “psicosi da Coronavirus” alle autorità scientifiche e sanitarie sta il compito di dare informazioni chiare ed univoche (mediate da organi di informazione responsabili), in modo da ridurre la percezione di allarme e dare la legittima impressione che l’infezione sia padroneggiabile almeno in alcuni suoi effetti. Alle autorità politiche sta il compito di declinare quelle indicazioni, sorrette dall’autorevolezza della conoscenza, in disposizioni collettive coerenti e non ambivalenti. Ai cittadini, infine, sta il compito più gravoso: trasformare un’ingovernabile angoscia senza oggetto nella paura, legittima, per un nemico subdolo a cui, tutti insieme, riusciamo pian piano a dare un’identità più chiara e quindi meno spaventosa.

Dott. Enrico Bassani
Psicologo – Psicoterapeuta
Via Leonardo da Vinci 15, Lecco
http://www.bassanipsicologo.it – info@bassanipsicologo.it – tel. 338.5816257


 

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