Dall’Airoldi e Muzzi la testimonianza della vita in una Rsa al tempo del coronavirus

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Rosaria Bonacina, vice presidente dell'Airoldi e Muzzi

La vicepresidente dell’Airoldi e Muzzi Rosaria Bonacina

“Cosa significa vivere in una Rsa in questa drammatica situazione”

LECCO – Un approfondimento ricco di significato e valore quello che propone Rosaria Bonacina, vicepresidente degli istituti riuniti Airoldi e Muzzi.

“La vita di una RSA e di chi al suo interno vive e lavora, non ha mai avuto tanta attenzione da parte della stampa e di tutti i media come in questi giorni di emergenza Covid-19.
Attenzione, però, tutta concentrata sul numero dei morti, numero certamente troppo elevato, soprattutto in certi territori, e che sicuramente genera spaesamento in chi ne ascolta il racconto, e nello stesso tempo favorisce accuse ai gestori di incapacità ad offrire una assistenza adeguata.
Probabilmente a poco sono servite tutte le attenzioni, i protocolli e le procedure messe in atto fin dai primi in giorni, rendendole poi sempre più rigorose, per evitare di esporre ospiti e lavoratori al rischio di contagio.
Uno sforzo che le Rsa si sono trovate a fare in totale solitudine, senza ricevere Dpi, aiuti e supporti, cercando di interpretare al meglio le indicazioni non sempre chiare dell’ISS, dei vari DPCM e delibere Regionali spesso in contraddizione tra loro; improvvisandosi esperti in gestione delle emergenze.

Per contenere il contagio si è scelto da subito di limitare al massimo le occasioni di contatto con l’esterno, impedendo l’accesso dei familiari e dei volontari. E questo ha creato per gli ospiti e per le loro famiglie una situazione di grave carenza di relazioni e di affetto di cui oggi forse non siamo in grado di valutare le conseguenze e gli effetti. Difficilmente potranno essere sufficienti a superare il disagio della lontananza dai familiari, le attenzioni del personale o lo sforzo delle strutture per favorire le videochiamate, la comunicazione con posta elettronica o altro che la fantasia degli operatori ha saputo inventarsi.

Ormai è passato più di un mese dall’inizio dell’emergenza e il personale che ogni giorno si prende cura degli ospiti, vive in una situazione di rischio in continua crescita e fonte di grande preoccupazione. Molti sono gli operatori assenti per malattia. Solo da pochissimi giorni si è iniziato ad effettuare i tamponi che quasi sicuramente daranno esiti positivi.
Il contagio intanto sembra aver cominciato a rallentare la sua corsa, ma presumibilmente nei prossimi giorni continueremo a sentire notizie di decessi degli ospiti delle RSA, anche in quelle strutture che nei primi giorni sono riuscite a “difendersi”.

Ma per chi dirige e lavora, come la sottoscritta, all’interno di queste strutture, sa che è possibile anche un’altra narrazione della vita di questi luoghi, sente l’esigenza di una narrazione più positiva.
Le RSA dei nostri territori custodiscono la storia di anni, e per qualcuna anche di secoli, dedicati alla “cura” di chi, in situazione di non autosufficienza (non dimentichiamolo), necessita di trovare accoglienza in strutture in grado di offrire risposte assistenziali e sanitarie adeguate.
Chi oggi viene accolto in una RSA spesso proviene direttamente dall’ospedale ed è in condizioni tali da non poter essere accudito al proprio domicilio sia per la presenza di pluripatologie sia per la necessità di assistenza di tipo quasi esclusivamente sanitario.
Tante sono le persone in condizioni di “terminalità” che trovano nelle RSA un luogo dove concludere la propria vita in modo dignitoso, accompagnati da cure palliative.

La morte è una “visitatrice” frequente delle RSA e il personale di cura è allenato a fronteggiarla e ad accoglierla quando non si può fare altrimenti, quando gli anni e l’evolversi delle malattie stanno facendo il loro corso e nessun trattamento sanitario le può debellare, quando l’unica cosa che si può fare è lenire la sofferenza ed attenderne insieme il compimento.
Sono delicati e difficili gli atti di cura che le equipe delle RSA portano avanti nei confronti dei propri ospiti; sono richieste una consapevolezza ed una responsabilità professionale molto alte, frutto di esperienza, formazione ed esercizio continuo.

È l’attività di “cura” che caratterizza e qualifica la quotidianità delle RSA: c’è tanto impegno e professionalità da parte degli operatori e ci sono ospiti che grazie a trattamenti sanitari adeguati, cicli intensi di fisioterapia, di stimolazione cognitiva o di musicoterapia, riescono a recuperare una discreta autonomia che consente loro di continuare una vita serena, degna di essere vissuta, di coltivare interessi e affetti. E’ stata molto dolorosa la morte di alcune di queste persone, forse colpite dal contagio (in assenza di tamponi non può esserci certezza); la loro morte è avvenuta troppo in fretta, senza lasciare spazio ad un ultimo saluto ai familiari, agli amici e agli operatori stessi.

Allora, se è vero che il grado di sviluppo di una civiltà si misura in base a come ci si prende cura delle persone più fragili, chi ha la responsabilità di una RSA ha bisogno di essere sostenuto a “custodire” questa attività di cura, non solo, e magari un po’ meglio, durante l’emergenza Covi-19, ma anche per il prossimo futuro.

Occorre trovare spazi in cui le RSA (molto spesso realtà Non Profit), possano condividere le riflessioni che nasceranno dall’esperienza di questi giorni, per certi versi molto dolorosa, con chi, territorio, Welfare regionale…, dovrà aiutare a riprendere le attività ordinarie e nello stesso tempo pensare anche a modalità innovative di erogazione dei servizi territoriali e residenziali per gli anziani, servizi che possano rispondere alle sfide che tutti dovremo affrontare , anche, e non solo in termini di sostenibilità dei costi”.