Genitori che uccidono i figli: perché? Ne parliamo con lo psicoterapeuta Enrico Bassani

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Prima della tragedia di Margno nel lecchese altri due drammi simili: Abbadia Lariana (2013) e Chiuso (2014)

Impossibile entrare nella mente di una persona. Possiamo fare delle ipotesi generali partendo da come costruiamo il mondo emotivo”

LECCO – Il recente tragico episodio di cronaca avvenuto nella vicina Valsassina (comune di Margno), dove un padre ha ucciso i due figli per poi togliersi la vita, segue ad altri due episodi simili avvenuti in provincia di Lecco: nel 2013 ad Abbadia Lariana dove una madre ha ucciso il proprio figlio di 3 anni e nel 2014 a Lecco, nel rione di Chiuso, dove una madre ha ucciso le sue tre figlie.

Vicende drammatiche ma ancor più complesse che aprono interrogativi altrettanto complicati. Nel tentativo di analizzare quanto successo abbiamo chiesto allo psicologo e psicoterapeuta Dottor Enrico Bassani di aiutarci a rispondere ad alcune domande senza giungere ad alcun giudizio di qualsivoglia natura, ma con l’unico intento di offrire significativi spunti di riflessione.

E’ evidente che la domanda non ha una sola risposta, ma cosa può spingere un genitore ad annientare la propria progenie?
“Ha ragione: una domanda così non ha una sola risposta. O forse, in senso ancor più radicale, non ha risposta. Iniziamo a fare una distinzione, che può aiutarci a riflettere su un dramma così profondo. Se il nostro intento è dare una valutazione etica, morale, o anche solo emotiva, di ciò che è successo (ossia esprimere un giudizio) siamo di fronte a qualcosa di sconvolgente, abissale, un buco nero in cui implode qualsiasi categoria di senso e di giudizio. La scelta del signor Mario Bressi è semplicemente in-umana o dis-umana: non c’è parola che possa commentarla.
E, forse, non è neppure opportuno farlo.
Se invece il nostro intento è cercare di comprendere ciò che è successo possiamo appellarci a tutto quello che che la psicologia ha imparato su come si costruisce il mondo emotivo di un individuo e su che cosa può portarlo alla totale implosione”.

 

Cioè? Che cosa può essere successo? Si possono categorizzare le tipologie di cause?
“È impossibile entrare nella mente di una persona. Questo aspetto è sempre opportuno ricordarlo per non cedere a facili semplificazioni. Possiamo però fare delle ipotesi generali, cercando di cogliere qualche spunto.
Una delle frasi che più mi ha colpito di quelle indirizzate dal signor Bressi alla moglie è la seguente: ‘Hai rovinato la nostra famiglia’. È come se l’intenzione della moglie di separarsi avesse spezzato un sogno, rotto l’incantesimo di una vita felice (magari idealizzata). E allora possiamo immaginare il dolore, la rabbia, il senso di smarrimento, la paura, l’impotenza, l’angoscia dell’abbandono. Una miscela esplosiva che evidentemente si è innestata su una fragilità personale molto profonda. E, forse, su una solitudine esistenziale che non ha permesso al signor Bressi di stemperare, almeno in parte, la potenza di emozioni così dirompenti e di articolare possibili spiegazioni di quello che stava accadendo e di come avrebbe potuto affrontarlo.
Non c’è mai una sola causa di eventi così terribilmente drammatici. C’è un intreccio di vissuti angoscianti che si alimentano l’un l’altro e si amplificano esponenzialmente senza tregua, senza respiro, dando luogo ad una spirale che si avvita su se stessa in modo sempre più stringente, fino a non lasciare nessuno spiraglio di luce, di aria, di vita. Un buco nero da cui nulla può uscire”.

 

Dalle foto postate sui social dal padre, poche ore prima del massacro, traspare un grande legame tra padre e figli: come è possibile che si sia giunti a questo?
“La rabbia acceca, così come il dolore e la paura. Il mondo emotivo si pietrifica sotto il peso di istanze così potenti e ingovernabili. Tutto prende una nuova luce, tetra, funerea, tenebrosa. Possiamo immaginare che il signor Bressi ad un certo punto abbia visto la propria morte come unica via d’uscita ad un dolore insopportabile e ad una rabbia esplosiva”.

 

Sì, ma i figli? Perché la loro morte?
“Sembrerebbe che il padre abbia ucciso i figli per ripicca, vendetta, nei confronti della moglie che, pare, lo stava per lasciare.
Questo è l’aspetto sicuramente più sconvolgente: dare la morte a chi si ama e non ha alcuna colpa. Soprattutto quando riguarda l’innocenza dei bambini.
Il dolore – dicevamo – con tutto il suo corollario di terribili vissuti parassiti, e la rabbia sono una miscela esplosiva. Rabbia per colei che, nello sguardo deformato e deformante del signor Bressi, è stata responsabile della fine del sogno e dell’inizio dell’incubo. Una rabbia che non permette di vedere altro se non il proprio oggetto: chi ha la colpa della rottura dell’incantesimo.
Ecco allora che il mondo si rimpicciolisce, fino a diventare puntiforme: esiste solo il dolore per sé e la rabbia verso colei che l’ha provocato. Tutto si concentra su quell’unico elemento, a cui si attribuisce una responsabilità assoluta ed esclusiva. Prende così corpo la fine, la morte, per sé, e una condanna ancor più terribile per colei che – nella sua mente – ha la colpa di tutto questo. Una vendetta quasi impossibile da concepire. Come ha scritto Mario Bressi: ‘Non li rivedrai mai più’ “.

 

In questo caso si può parlare di complesso di Medea al maschile? Ha senso? Ce lo può spiegare?
“Lei cita giustamente il mito di Medea per cercare di offrire un possibile avvicinamento a questo dramma. Ed è sicuramente quella la figura da evocare, nella nostra tradizione culturale, in rapporto alla tragica scelta del signor Bressi.
Nella riduzione che la psichiatria contemporanea ha fatto del mito (di tutti i miti), la tragedia di Euripide è però diventata una ‘sindrome’ o un ‘complesso’, come se potesse avere un ruolo esplicativo di carattere psicologico rispetto alle tematiche umane. Ma questa è un’operazione ‘nostra’, non sicuramente della cultura greca. La potenza originaria del mito sta nel fatto che rappresenta istanze umane senza cercare di ‘ridurle’ ad una spiegazione (come cerchiamo di fare noi parlando di “sindrome” o di ‘complesso’). Le evoca, le rappresenta e le articola in una possibile narrazione, ma lì si ferma nella misura in cui non è possibile andare oltre con la razionalità.
Le tematiche esistenziali ed emotive, ossia le forze più potenti della vita (sia in senso drammatico che vitalistico) possono essere avvicinate, evocate, rappresentante simbolicamente, narrate e, in qualche misura, com-prese, ossia “prese insieme”. Ma non ‘spiegate’, ossia ridotte solo ad una spiegazione razionale.
C’è un punto oltre il quale la razionalità non si può inoltrare perché la foresta diventa buia e impenetrabile. I greci – come non perde occasione di ricordare il filosofo Umberto Galimberti – l’avevano capito benissimo. Forse anche noi dobbiamo ricordarcelo più spesso, soprattutto di fronte a tragedie, come questa del signor Bressi e della sua famiglia, che lasciano senza parole. E senza fiato”.

 

L’uomo, si dice, sia un essere razionale. Ma lo è veramente?
“Se c’è una consapevolezza che la contemporaneità, in tutti i campi disciplinari, ha maturato è proprio quella per cui la razionalità non è il perno dell’agire umano. Per dirla con Nietzsche, ‘La razionalità mette ordine là dove è già successo qualcosa’. E quel ‘qualcosa che succede’, nell’orientare l’intenzionalità umana, ha sempre un carattere emotivo e profondamente enigmatico.
Ciò che ha tragicamente mosso il progetto omicida e suicida di Mario Bressi ha qualcosa di estremamente lucido e razionale nella sua esecuzione finale, ma la forza inarrestabile che ha armato la sua mano contro i propri figli e sé stesso non ha nulla a che fare con la razionalità. Tant’è – come dicevamo – che non c’è ragionamento o parola che lo possa ‘spiegare’ “.