Ospedale di Lecco, intervista al direttore, guarito da covid 19: “Al lavoro per la fase due”

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66 anni, direttore sanitario dell’ospedale Manzoni, Baraldo si è ammalato l’8 marzo ed è tornato in servizio il 20 aprile

“Abbiamo spento l’incendio, ma il contagio è ancora in agguato. La fase 2 in ospedale è dare risposta anche ai pazienti non infetti che aspettano una visita”

 

LECCO – In ospedale è stato contagiato e tra i reparti del Manzoni è tornato dopo più di 40 giorni di “malattia” pronto a fornire il suo prezioso contributo per la graduale e lenta riorganizzazione di un presidio che dovrà tornare alla normalità convivendo con il Covid-19. Gedeone Baraldo, 65 anni, laurea in Medicina e Chirurgia e specializzazione in Medicina Fisica e Riabilitazione e Igiene ed Organizzazione dei Servizi Ospedalieri, ha sconfitto la “bestia” che risponde al nome di Coronavirus. E appena ha potuto è tornato al Manzoni per continuare a svolgere con dedizione e passione il suo ruolo di direttore medico di presidio. A lui abbiamo chiesto di raccontarci cosa ha provato a indossare i panni di paziente covid 19 e quali sono le prospettive per l’immediato futuro dell’ospedale in questa emergenza sanitaria che sta cambiando il mondo.

Iniziamo proprio dalla malattia. Quando ha iniziato ad accusare i primi sintomi?
“L’8 marzo. Sono tornato a casa e avevo la febbre. L’ho misurata ed era alta: 39.5. Ho assunto il Paracetamolo. Scendeva, ma trascorse le fatidiche 6 ore risaliva”.

Cosa ha fatto?
“Sono rimasto a casa. Erano i giorni della maxi emergenza con gli ospedali congestionati di pazienti, le code delle ambulanze fuori dai nostri Pronti Soccorsi. Sia l’ospedale di Merate che quello di Lecco si sono trovati a fare i conti anche con l’onda d’urto di casi provenienti dalla vicina provincia di Bergamo. Sono rimasto a casa pensando che la febbre sarebbe passata”.

Ambulanze in coda fuori dal Pronto Soccorso: è successo a marzo sia all’ospedale di Lecco che di Merate

E poi invece?
“La situazione non migliorava. Sono venuto in ospedale a Lecco. Mi hanno fatto il tampone e la lastra ai polmoni. Dallo sguardo del radiologo ho capito che qualcosa non andava bene. E lì ho accusato il colpo. Ho avuto un momento di sconforto, ma poi ho pensato che dovevo mettercela tutta e lottare”.

Quanto è stato ricoverato?
“Dieci giorni nel reparto di Malattie infettive del Manzoni. Mi hanno curato con terapia antivirale e antinfiammatori. E ha funzionato. Ho tenuto duro. Fortunatamente non ho avuto bisogno né di Cpap né di ossigeno”.

Cosa si ricorda di quei giorni?
“Di un mio collega che veniva a trovarmi tutti i giorni dicendomi “Fai la marmotta”. Mi suggeriva cioè di restare tranquillo senza preoccuparmi del lavoro e di pensare a rimettermi in forma. In quei dieci giorni, l’ospedale mi è sembrato diversissimo da quello che conoscevo, con corridoi vuoti e volti irriconoscibili per via delle mascherine e delle cuffie”.

Occhi e mani di cui ha potuto constatare anche da paziente la professionalità e la bravura.
“Certo, non ne avevo dubbi. L’ospedale ha retto benissimo. Ogni operatore, medici e infermieri, ha dato il massimo”.

Una volta dimesso, è tornato a casa ed è dovuto restare in isolamento?
“Sì, come da protocollo in attesa del doppio tampone negativo. Mi ricordo il viaggio di ritorno a casa in una Statale 36 deserta. Mi è sembrato tutto molto surreale per un pendolare come me abituato a ben altri livelli di traffico. A casa, sono rimasto in isolamento da mia moglie e dai miei figli per due settimane. Ma già saperli vicini mi ha aiutato. La ripresa è stata lenta e graduale: questo virus lascia degli strascichi. Ho passato due settimane a letto, poi ho iniziato pian pianino ad alzarmi, a vestirmi e a rimettermi in moto.
E ho sentito il bisogno di tornare al lavoro dai miei colleghi sapendo che diversi si erano ammalati e c’era quindi bisogno di rientrare in squadra”.

Cosa l’ha spinta a tornare in corsia?
“La guarigione è un processo, ed il ritorno al lavoro, anche se inizialmente duro, aiuta a tornare alla normalità. Tornare a esserci in ospedale significa testimoniare che ce la si fa, comunque”.

Come l’ha trovato il Manzoni il 20 aprile?
“Sicuramente diverso da come l’avevo lasciato. Pronto a rimettersi in moto per tornare a essere un ospedale chiamato a riprendere gradatamente tutti i servizi e le sue attività, dopo aver trattato esclusivamente i pazienti Covid e le urgenze- emergenze e gli interventi improcrastinabili. Ho trovato i colleghi ed il personale, dopo otto settimane di servizio ininterrotto, senza sabati né domeniche, provati, sicuramente bisognosi di un po’ di normalità.  In ospedale e a casa pensavo a vincere la malattia. Le mie energie erano concentrate su quell’obiettivo, “fare la Marmotta” per recuperare al massimo. Solo successivamente è uscito l’aspetto emotivo ed è stato forte e dirompente, quando ho saputo della perdita di alcuni cari operatori e colleghi di altri Ospedali Lombardi”.

Com’è la situazione ora?
“Abbiamo spento l’incendio, ma il contagio è ancora in agguato. Ci sono tante forme subcliniche di cui dovremo tenere conto a lungo. Ma per fortuna i casi gravi da Rianimazione stanno calando. Questo perché, calata l’onda di piena, si riesce ad affrontare la malattia senza aspettare che l’infezione possa scatenare la risposta infiammatoria che danneggia i polmoni e rende necessario il ricovero in rianimazione. Oggi riusciamo a intervenire subito perché gli ospedale non sono più sovraffollati come nel momento di massima crisi. Anche la forte virulenza dei primi tempi è meno accesa.  Con molta cautela inizieremo a riaprire i servizi essenziali, dagli ambulatori alle sale operatorie arrivando ai reparti. Non dovremo mai calare l’attuale guardia e dovremo mantenere il distanziamento spaziale e temporale. E poi c’è una premessa…”

Quale?
“Non possiamo aspettarci di tornare alla fase di azzeramento dell’epidemia. Ci aspettiamo di passare da un’epidemia a un’endemia che vuol dire che i casi di infezione da covid resteranno, anche se saranno meno frequenti, e forse anche meno gravi perché riconosciuti agli esordi e curati immediatamente sul nascere.
Il ritorno alla normalità dell’ospedale dovrà avvenire con molta gradualità sia di tempo che di spazi. La virulenza si è attenuata, abbiamo meno pazienti con sintomi meno gravi, ma non possiamo escludere un “rebound” ovvero un rimbalzo, un ritorno della fase epidemica.
Per cui la riorganizzazione dei Servizi Ospedalieri non potrà avvenire semplicemente tornando alla situazione ex ante. E’ una situazione nuova e le conoscenze scientifiche sono ancora parziali: non abbiamo solide conoscenze a disposizione per operare al meglio. Dobbiamo accontentarci di migliorare passo passo”.

Controlli della temperatura all’ingresso dell’ospedale Manzoni

Qual è la fase 2 dell’ospedale?
“E’ dare risposta anche ai malati non infetti che aspettano una visita, un’operazione, un controllo. E’ tornare a svolgere l’attività ospedaliera rispettando i tempi di attesa in base alle patologie e ai rischi. Il tutto convivendo con il virus, utilizzando quindi i tamponi e gli esiti degli accertamenti sierologici per diagnosticare l’eventuale presenza della malattia o l’esserne immunizzati, così da non far accedere un utente potenzialmente “infetto” in un reparto “pulito”.
Bisognerà cioè creare aree filtro per separare i potenziali soggetti Covid infetti o infettanti dagli utenti non infetti. Così come abbiamo fatto fin da subito, quando abbiamo capito che il coronavirus era arrivato anche in Lombardia. Insomma guardiamo avanti, ma dobbiamo procedere con gradualità, applicando il principio della massima cautela, in relazioni alle attuali conoscenze sulla malattia”.

Come ha reagito l’ospedale a questa piena? C’è chi ravvisa diverse carenze, su tutte la mancanza o la scarsità di dispositivi di protezione individuale…
“Il sistema ha reagito bene. Sui dispositivi di protezione individuale bisogna premettere che non avevamo scorte perché la fornitura è basata sulla domanda e non avevamo mai avuto delle esigenze così. Con lo scoppio dell’epidemia, ogni sera, anche nei giorni più intensi, riuscivamo però ad assicurarci il materiale per il giorno successivo. Poi, per fortuna, sono arrivate le donazioni. Ma davvero mi fa male vedere puntato il dito sulla nostra sanità. Lavoro nel Sistema Sanitario in Lombardia da 30 anni e sono fiero ed orgoglioso di lavorare in una Regione dove il pareggio di bilancio è stato raggiunto già nel 2004. Certo il Sistema ha ampi margini di miglioramento, soprattutto sul collegamento con il territorio, la continuità Ospedale Territorio si poteva fare e infatti poi è stato fatto con particolare riguardo ai controlli di chi è in quarantena”.

Anche sui tamponi c’è chi dice che si poteva fare di più citando come esempio il Veneto
“Non è facile dall’oggi al domani rispondere ai casi che abbiamo registrato in Lombardia. Ci siamo attrezzati da subito per riuscire a effettuare i tamponi anche nel nostro Laboratorio di Lecco non dovendo più inviarli al “San Matteo” di Pavia ed all’Ospedale “Sacco” di Milano. All’Ospedale di Niguarda inviamo tutti i tamponi che non si riesce a processare a Lecco. Il Laboratorio di Lecco è riservato ai pazienti ricoverati che necessitano di tempi brevi per la risposta, dai 90 minuti alle 6 ore, in maniera tale da orientarci sul trattamento clinico.
A Niguarda si inviano i tamponi che possono avere una risposta in 24 ore, per i pazienti guariti clinicamente che aspettano risposta per la doppia negatività.

Anche a Lecco sono iniziati i test sierologici. Che contribuito potranno dare?
“Sono strumenti diagnostici importanti perché ci permetteranno di capire chi ha sviluppato anticorpi al virus ed è quindi immune. Non sappiamo ancora se questa sarà un’immunità permanente, come ad esempio quella della varicella, perché molti aspetti di questo virus restano ancora da chiarire. Su questo virus abbiamo poca letteratura a disposizione, abbiamo dovuto imparare dalla questa epidemia in corso. Restano ancora domande a cui si potrà rispondere forse in futuro come quella relativa al perché in altre regioni ed in altri paesi l’epidemia sia stata meno letale: dipende dal censimento dei casi, dalla maggior virulenza del virus, o dall’aver colpito zone meno densamente popolate?”

Cosa è importante fare ora da semplici cittadini?

“Non abbassare ora la guardia. Quindi abbracciamo virtualmente i nostri amici, ma non smettiamo di lavarci le mani e a usare le mascherine.
Si spera che la bella stagione, le giornate all’aria aperta ci vengano in aiuto per rallentare la trasmissione di questo virus che si è rivelato molto contagioso e virulento. Conoscevamo un’altra realtà legata alla famiglia dei Coronavirus del comune raffreddore, non quella di un virus così aggressivo”.