Ospedale. Il dottor Maniglia chiude il cerchio: “Passato lo tsunami restano le macerie”

Tempo di lettura: 3 minuti

Dopo il racconto dell’emergenza, ora c’è voglia di ripartire

“Devo ammettere che ho incrociato le dita perché a volte non basta la scienza”

LECCO – Era stato intervistato da televisioni e radio nazionali per quelle parole che, lo scorso 5 aprile, nel pieno dell’emergenza covid, aveva affidato ai social network. Un post in cui il dottor Paolo Maniglia raccontava tutte le difficoltà, anche dal punto di vista umano, di un medico anestesista dell’ospedale di Lecco che, in periodo difficilissimo, ha visto partire alcuni dei “suoi” pazienti verso la Germania che aveva teso una mano a cui aggrapparsi. A distanza di quasi due mesi il dottor Maniglia chiude il cerchio, così ha intitolato il suo secondo posto al termine dell’emergenza.

Quando il cerchio si chiude

“Il Signor T. è morto. Oltre alle complicanze renali si sono aggiunte complicanze al fegato e sovrainfezioni varie. I suoi reni si stavano già bloccando e noi non avevamo macchine per dializzarlo in continuo. Erano tutte occupate.
La signora R. è rientrata già da un po’. Sta facendo riabilitazione. Ha avuto qualche complicanza cerebrale ma sembra stia recuperando.
Settimana scorsa sono andato a recuperare il Signor G., sempre a Colonia. Era un po’ confuso ma rivederlo è stato bello. Abbiamo parlato di bancali, di pesi e di trasporti durante il viaggio. Io non ne capisco ma lui mi spiegava. Un po’ a modo suo. E i conti tornavano. Ora ne so di più.
Oggi rientra dalla Germania la Signora G. sta bene, è ancora un po’ affaticata ma sta bene. Questo è quello che conta.
È una paziente dell’ambulatorio della terapia del dolore. La conoscevo da tempo. Cefalea cronica. Ho voglia di rivederla.
Anche il Signor C. che era volato a Terni è rientrato. Lui mi sembra si sia fatto il viaggio di ritorno in elicottero.
Devo ammettere che ho tenuto le dita incrociate per tutto questo tempo.
Non per questioni di sfiducia nell’operato dei colleghi che li hanno ricevuti. Anzi avranno la mia gratitudine per l’eternità. Con molti di loro ci siamo sentiti in questo periodo. Periodicamente scrivevo o telefonavo per sapere le condizioni cliniche.
Ho incrociato le dita perché a volte non bastano né la scienza né il massimo impegno che si può dare. Spesso serve anche un pizzico di fortuna. Soprattutto quando devi affrontare un nemico che non conosci. Così subdolo da presentarsi sotto forma di polmonite e mutare in poco tempo in una patologia multiorgano.
Ho incrociato le dita perché se fossero morti tutti…
la possibilità c’era…
ma non è andata così.
Ora nel nostro ospedale rimane un solo paziente in terapia intensiva, il Signor P., incrocio le dita anche per lui.
E qui il cerchio si chiude.

Per il resto stiamo cercando di ripartire. Di riprendere la nostra ‘routine’.
Ma è faticoso. Siamo tutti stanchi.
Ancora di ferie non ne abbiamo fatte.
E ancora la situazione è incerta.
Tanti di noi sono ancora “attivati”. Non riescono a uscirne. Tanti vorrebbero andare avanti. Ma ogni volta che entri in ospedale c’è sempre qualcuno o qualcosa che ti ricorda quei giorni. È come un vortice che ti risucchia e ti sbatte di nuovo in mezzo alla polvere. Ti manca il fiato per qualche secondo. Ti concentri, fai un respirone e ritorni coi piedi per terra. E riprendi a fare quello che devi sapendo che questa è la tua nuova normalità.
Non so cosa succederà nel futuro e non voglio saperlo.
Per ora ho voglia di ripartire.
Ho abbandonato i miei pazienti della terapia del dolore a se stessi. Non avevo né tempo né energie per loro.
Lo hanno capito e hanno aspettato. Ma non hanno smesso di soffrire.
Semplicemente sono stati a casa buoni buoni. Con i loro dolori.
Ora mi cercano. Hanno bisogno di me. E io di loro. Dobbiamo ricostruire tutto. Da zero.
Perché se prima è passato lo tsunami ora rimangono le macerie. Bisogna rimboccarsi le maniche.
Qui ospedale di Lecco
Non lasciamo indietro nessuno”.