MANDELLO – Un gruppo di grandi speroni calcarei affacciati sulla Val Méria. Il Sasso Cavallo è il più imponente e presenta verso sud una impressionante parete liscia sulla quale sono stati tracciati difficili e impegnativi itinerari, rimasti per anni tra i più temuti delle Grigne. Poi c’è il Sasso Carbonari, una parete meno conosciuta, più difficile da leggere con le sue cenge e i suoi strapiombi. Schiacciato tra i due colossi, infine, c’è il Sasso di Sengg. L’ambiente è selvaggio e solitario, l’avvicinamento è lungo, raramente si trova affollamento in parete.
Questa è la seconda casa di Benigno Balatti, classe 1954, alpinista da quando aveva 14 anni: “Ho cominciato con la Segantini. A quei tempi si scappava letteralmente in Grigna: dicevo a mia mamma che andavo al Nibbio a fare lo spigolo, invece ero ai Magnaghi o all’Angelina”.
Mandellese di origine, oggi abita a Crebbio, frazione di Abbadia (“Su, bello al fresco”) ma lo incontriamo ai Resinelli, nella casa del papà. Cresciuto alla scuola del Det Alippi (che è anche suo cognato), è stato uno di quei giovani che, diviso tra lavoro e passione per la montagna, ha scritto pagine importanti della storia del gruppo Corvi. “Per riuscire a fare una via più difficile del tuo livello avevi bisogno di qualcuno che ti indrizzava a superare te stesso. Il Det era uno di quelli che ti spronava: ti insegnava l’arrampicata, ma ti faceva anche capire il modo di vivere la montagna. Da buon cacciatore e contadino, sapeva i perché di tutte le cose”.

Cavallo, Carbonari e Sengg, cosa sono per un mandellese?
“Aprivo la porta al mattino ed era la prima cosa che vedevo. I mandellesi si dividono in laghee, ai quali delle pareti non interessa niente, e muntagnat, per i quali questi speroni rappresentano una attrazione. Non è solo questione di arrampicata, ma queste pareti esercitano il loro fascino anche solo a passarci sotto: con il brutto tempo sembrano ancora più difficili, con il bel tempo, invece, è un piacere buttarsi giù in un prato in cerca di qualche cordata che sale.
Il Sasso Cavallo è sempre stata una attrazione per molti alpinisti, non solo di Mandello, fino agli anni 70 c’erano solo cinque vie.
“La Carugati, la Cassin, la Oppio, la via Delle Morose e la via Redaelli. Quello a cui si puntava solitamente erano la Cassin e la Oppio. Ricordo che le relazioni c’erano ma erano abbastanza approssimative, soprattutto gli schizzi non combaciavano mai con la realtà”.
Come sono queste pareti?
“Il Sasso Cavallo è il più famoso, è una vera e propria lavagna, le vie sono severe. Mentre il Sasso Carbonari, è una parete meno conosciuta, l’ambiente è più vasto e difficile da leggere con le sue cenge, gli strapiombi pronunciati… la parete non è quasi mai verticale. Le vie sono in stile dolomitico: pochi chiodi e bisogna andare a intuito. Pochi si avventuravano sul Carbonari, la maggior parte buttava giù le doppie altrimenti passava la notte in parete. E poi, stretto tra questi due colossi, c’è il Sasso di Sengg. Tutte pareti di calcare, ma mentre il Cavallo è un obelisco liscio, il Carbonari è più rotto e soggetto a frane, e il Sasso di Sengg è una roccia simile all’Antimedale”.

Quale è il fascino di questa zona?
“Quando sei in parete senti soltanto il fischio del treno, le campane di Mandello oppure il suono delle motoseghe e dei decespugliatori di gente al lavoro per pulire i sentieri e i prati dell’alta Val Méria. Sei fuori dal mondo, anche perché arrivare alla base non è semplice: con uno zaino di 10/12 chili, per una persona allenata, partendo da Rongio (frazione di Mandello) ci vogliono 2/2,5 ore. Il bello è che sei sopra il lago, ma ti sembra di essere in un luogo molto più lontano. Quando arrampichi é un piacere sentire le voci arrivare dai sentieri, è un piacere. Io mi sento a casa, mi sento libero. E poi ti guardi in giro… non è solo arrampicata tecnica, ma avventura. Vedi camosci, caprioli oppure corvi e taccole che girano intorno agli strapiombi: è l’ambiente delle Grigne che ti abbraccia”.
Un luogo che dà sicurezza, ma allo stesso tempo è severo.
“E’ il posto più solare delle Grigne, è selvaggio ma ti dà forza. Ho fatto circa 150 volte il Sasso Cavallo e sicuramente devi essere allenato altrimenti quando arrivi sotto ti incute timore, ti senti schiacciato. Mi è capitato di arrivare lì, guardare in alto e chiedermi come avessi fatto la volta precedente. Poi fai un tiro, il secondo e ti abitui. E quando arrivi in cima c’è un bel prato che in mezz’ora ti porta al rifugio Bietti camminando tra i pini mughi. Il panorama è fantastico, ti attira”.

Oggi le vie tracciate sono tantissime e tu ci hai messo del tuo.
“Ho cominciato a ripetere tutte le vie esistenti sul Cavallo in ogni stagione, poi sono andato sul Sasso di Sengg a ripetere la via Giuliana e quindi sul Carbonari, anche lì sempre ripetizioni (la maggior parte salite anche in invernale, parecchie come prime ripetizioni). Se non ricordo male, insieme a diversi compagni, ho aperto 14 vie: via Della Stria, via Mandello, via Annamaria, via Della Luna, via dei Corvi, via degli Amici (Sasso Cavallo). Via del Camoscio, via delle Clessidre, Placca della Lucertola, via Imelde (Sasso di Sengg). Via Moss Ruggiero, via del Togn, via della Disperazione, via per il Paradiso (Carbonari)”.
Tra tutte le vie esistenti qual è la più bella?
“La via più bella, estetica, divertente è senza dubbio ‘Dieci piani di morbidezza’ (Norberto Riva, Gianfranco Tantardini e Umberto Villotta, 1991). Per quelli che hanno un livello inferiore, però, io consiglio vivamente la via Oppio, via storica ma che dà sempre soddisfazione. E poi ci sono vie classiche-moderne come Cavallo Pazzo, L’altra faccia della Luna, la Via Della Luna, la Via Delle Morose, senza dimenticare quelle moderne, un po’ più difficili, come Ibis, Ludo Mentis e Febbre da Cavallo solo per fare alcuni esempi. Sulla parete Ovest Sud Ovest del Sasso Cavallo, meno conosciuta, ci sono alcune mie vie salite qualche anno fa da Marco Anghileri e Fabio Valseschini in prima ripetizione: si tratta delle vie Annamaria e Mandello, in particolare di quest’ultima si sono detti molto entusiasti per il tipo di arrampicata. E infine vorrei ricordare la via Valentino aperta il 1° novembre 1975 in memoria di Valentino Tantardini dal Det Alippi con Franco Tantardini e Marino Lafranconi”.

Anche per chi non arrampica vale la pena fare un giro?
“Magari in autunno, quando è più spoglio e si vedono meglio i panorami. Le possibilità sono infinite, a seconda della preparazione fisica. I sentieri che portano sotto le pareti sono tanti, certamente è un ambiente che merita”.
Passando per i boschi, poi, si notano caselli oggi diroccati.
“Venivano usati dai contadini che facevano la fienagione o raccoglievano la legna, basti pensare che arrivavano fin su alla cengia Cassin del Sasso dei Carbonari e andavano fino a metà della Carugati: tagliavano tutta l’erba e poi la facevano rotolare in basso. I primi alpinisti erano contadini e cacciatori: arrampicavano a piedi nudi, facevano la Carugati con tre moschettoni e due chiodi, in salita e discesa, anche da soli. Noi per tantissimi anni abbiamo utilizzato le baite circostanti: una volta siamo stati in 11 in una baita (El Casel di Bedul) dove ci stavano 4 persone, c’erano i piedi che spuntavano dalla legnaia. Si accendeva un bel fuoco, si mangiava qualche bistecca e poi c’erano sempre delle bottiglie nascoste da qualche parte. Quando nel ’73/’74 è stata fatta la via dei Corvi, sotto il Sasso Cavallo, vicino all’attacco, con un muretto avevamo creato un piccolo bivacco che poteva ospitare comodamente due persone, ma anche lì, tornati alla base dopo aver finito la via, abbiamo provato a dormire in cinque. Le baite, poi, sono andate in disuso o sono state distrutte dagli incendi”.

Al giorno d’oggi sono ancora così frequentate queste pareti?
“Negli ultimi anni si è ricominciato a ripetere le vie del Sasso Cavallo, specialmente le vie dimenticate. Si è fatto di tutto e di più fino agli anni 2000, poi c’è stato il boom dello spit e delle arrampicate con “troppa” sicurezza e queste pareti sono state un po’ dimenticate. Adesso c’è parecchia gente, molto alpinisti forti, che viene a riscoprire quello che era stato fatto alla ricerca dell’avventura. Il Sasso Cavallo, poi, è sempre stata una tappa obbligata per ogni mandellese, era un modo per capire quanto eri allenato, testavi il tuo livello. Sicuramente tutto questo movimento, se sommiamo anche quelli che fanno trekking, è una bella risorsa per i due rifugi della zona, Elisa e Bietti, che oggi sono tornati ad essere molto frequentati”.
Il paradiso di Benigno Balatti è un mondo da scoprire, che presenta una miriade di piccole sfaccettature. La passione con cui ne parla racconta di uomini lontani capaci di entrare in simbiosi con la natura; storie di fatica e di impegno, persone che sono riuscite a dare un’anima a queste rocce. Luoghi dove la storia si fonde con la cultura.
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NOMEN OMEN. BREVE STORIA DELLA VIA DELLA STRIA
La via della Stria (parete Ovest Sud Ovest del Sasso Cavallo) è stata aperta il 18 novembre 1990 da Benigno Balatti con la moglie Giovanna Cavalli e ripetuta in prima invernale dagli stessi salitori nel 1992.
“Via della Stria perché ho visto la strega”. Insomma, Balatti quella volta se l’è vista davvero brutta e si è preso un bello spavento, da qui è nato il nome alla nuova linea aperta nel 1990. “Ero sul penultimo tiro e c’era un sasso incastrato in una fessura, ho messo dentro la mano, il sasso si è spostato ed è rimasta dentro- racconta -. Ero a 250 metri da terra e mia moglie, che stava imparando ad arrampicare, era 30 metri più in basso. A quel tempo l’ultima cosa che pensavi di fare era chiamare il soccorso. Ho tirato fuori un chiodo a U e l’ho messo sotto per evitare che il sasso scendesse ancora di più, tiravo ma la mano non usciva. Ero sulle staffe, appeso su uno strapiombo, ho cominciato a picchiare un chiodo da parte per vedere se il sasso si girava. Riuscivo a star su qualche secondo, poi dovevo mollare. Fino a quando, dopo un bel po’ di tempo, sono riuscito a tirarmi fuori. Avevo la mano aperta quasi fino all’osso e mi faceva male il braccio. Dall’alto ho spiegato a mia moglie quello che doveva fare, così mi ha calato fino alla sosta”.

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