LECCO – Mentre tutti guardano al processo che dovrà aprirsi sui presunti casi di maltrattamenti denunciati dai lavoratori, Laura Gaddi ha già vinto la sua battaglia contro la Gilardoni Raggi X: in questi giorni ha potuto leggere la sentenza con cui la Corte di Cassazione ha chiuso la disputa legale tra lei e l’azienda mandellese, dandole ragione sull’illegittimità del licenziamento e dei provvedimenti disciplinari a cui l’azienda l’aveva sottoposta.
Lei, che in quella ditta aveva vissuto i suoi 40 anni di lavoro, entrando in Gilardoni quando aveva solo 15 anni, è voluta andare fino in fondo per farsi riconoscere nel giusto; un riscatto non solo legale ma anche morale per Laura, che mercoledì, nella sede della Fiom di Lecco, ha voluto raccontare alla stampa un’esperienza che l’ha distrutta nell’anima, costringendola a ricorrere al sostegno anche degli psicologi, oltre che degli avvocati della Cgil che l’hanno affiancata dall’inizio di questa vicenda, dal 2014 ad oggi.
“La sua storia è l’emblema di quello che stava accadendo in questi anni alla Gilardoni. Una donna che ha lavorato una vita in azienda, licenziata in due mesi, con la notifica di 10 contestazioni disciplinari. Questo è il metodo che è stato usato per allontanare molti altri dipendenti” ha spiegato l’avvocato Alessandra Colombo, dell’ufficio vertenze della Cgil, che ha seguito la vicenda di diversi lavoratori della Gilardoni insieme al responsabile dell’ufficio, Gabriele Viganò e all’avvocato Valentina Marcucci.
“Al dipendente venivano addossate una serie di contestazioni disciplinari, anche più di una nello stesso giorno, causando in loro uno stato depressione – ha proseguito l’avvocato – a quel punto alcuni si dimettevano oppure venivano licenziati”.
“Non ero più in grado di lavorare – ha raccontato Laura – non mangiavo più, non dormivo più… ho dovuto ricorrere alla cure di uno psicologo e all’uso di antidepressivi. Gli insulti erano all’ordine del giorno. Hanno annientato la mia autostima, ero incapace di fare, fragile. Oggi ringrazio l’appoggio della mia famiglia, di mio marito e dell’ufficio vertenze della Cgil che mi ha aiutato ad superare questa esperienza”.
I contrasti con l’azienda, spiega l’avvocato Colombo, sarebbero nati dopo la richiesta di restare al lavoro anche nel pomeriggio, nonostante la donna avesse un contratto part time. “Laura si è sempre resa comunque disponibile in questi anni a lavorare anche il pomeriggio, ma in quel periodo aveva problemi famigliari, un figlio con la gamba rotta da dover assistere negli spostamenti fuori casa”.
In quelle settimane sarebbero iniziate ad essere recapitate a casa della donna le raccomandate con le contestazioni disciplinari. “Pretestuose” le definisce l’avvocato, “mi si addebitavano colpe per lavori che non mi competevano” dice la donna.
Ma il giudice del lavoro di Lecco aveva dato ragione alla Gilardoni, sentenza ribaltata dalla Corte di Appello di Milano che il 4 novembre del 2015 aveva riconosciuto come infondate le sanzioni disciplinari e aveva revocato il licenziamento. L’azienda ha fatto a sua volta ricorso alla Corte Suprema di Cassazione che ha ribadito definitivamente le ragioni della dipendente.
“Ci è risultata incomprensibile la volontà dell’azienda di ricorrere, anche perché nel frattempo Laura era andata in pensione. Quest’ultima sentenza, però, ci dà ancora più forza sulla legittimità delle ragioni di questi lavoratori – sottolinea il legale – con altri dipendenti si era giunti ad un accordo economico, perché rinunciavano al loro reinserimento in azienda”.
Tanti, al contrario di Laura, hanno fatto questa scelta: “Dal 2012 c’è stata una progressione esponenziale di lavoratori che si presentavano al nostro ufficio con le medesime situazioni, non era più l’eccezione ma la regola in quell’azienda – racconta Viganò, responsabile dell’ufficio vertenze – molti, comprensibilmente decidevano di anteporre la loro salute ad ogni altra cosa, decidevano di dimettersi consapevoli che non si sarebbero rioccupati nel volgere di poco tempo, mettendosi non solo a rischio di non percepire l’indennità di disoccupazione ma rimettendoci dei soldi in termini di trattenute per il mancato preavviso. Questo significava anche lasciare alla Gilardoni migliaia di euro, ma la situazione era così grave che per loro c’era solo intenzione di lasciarsi alle spalle quell’esperienza. Andando in fondo avremmo avuto modo di far accertare che diritti e dignità erano stati violati, ma questi lavoratori hanno deciso consapevolmente di lasciare tutto alle spalle e curarsi, progettare una nuova vita professionale”.
Anghileri, della Fiom Cgil, si è reso subito conto del “clima di terrore in cui vivevano i lavoratori. La paura vinceva sulla possibilità di far valere i propri diritti. Emerge un quadro in cui non solo Cristina Gilardoni operava, perché se le contestazioni erano una prassi, c’era chi le costruiva con pareri legali e chi le scriveva. Non era solo una persona, ma tutto il contesto a metterci del suo in questa vicenda”.
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