In aula parla l’ex capo del personale della Gilardoni Raggi X di Mandello
“In azienda nessuno poteva prendere decisioni se non Cristina Gilardoni”
MANDELLO – “In Gilardoni non si muove foglia che Cristina non voglia, un detto che già esisteva al mio arrivo in azienda e che ho imparato anch’io a conoscere”.
Respinge le accuse Roberto Redaelli, ex responsabile del personale della Gilardoni Raggi X di Mandello, al processo sulle presunte vessazioni subite dai lavoratori dell’azienda di cui è diventato il principale imputato, dopo l’uscita di scena della storica titolare Maria Cristina Gilardoni, non più processabile in quanto gravemente malata di alzheimer.
Chiamato al banco dei testimoni, davanti al giudice Martina Beggio, Redaelli scarica sull’allora presidentessa la responsabilità sul clima di malumore in azienda, anzi, spiega di aver avuto più volte un ruolo calmierante, da mediatore, nelle dispute tra la titolare e i suoi dipendenti, subendo a sua volta gli insulti della “signora”.
Non solo: per l’ex capo del personale, un peso nella vicenda lo avrebbe avuto anche il consulente del lavoro Alberto Comi (che ha già patteggiato la condanna per abuso di professione) e pure i litigi tra mamma Cristina e il figlio Marco Taccani Gilardoni, oggi alla guida dell’azienda di famiglia.
La sua deposizione è iniziata solo in tarda mattinata per concedere tempo agli avvocati delle parti coinvolte di visionare la nuova e copiosa documentazione presentata in apertura dell’udienza dal suo avvocato difensore Maschi.
Rispondendo alle domande del legale, Redaelli, ripercorre le tappe del suo percorso in Gilardoni Raggi X nel marzo del 2005 tramite agenzia interinale e assunto direttamente dall’azienda un mese dopo come impiegato, prima nell’ufficio di controllo e gestione e dal 2007 all’ufficio personale allora diretto da Andrea Anghileri.
Non cita a caso il suo predecessore perché in quel periodo, secondo Redaelli, Cristina Gilardoni, venendo meno la fiducia nel suo responsabile, avrebbe iniziato ad accentrare più compiti all’ufficio personale, aprendo poi la collaborazione con Comi “un tuttologo che godeva della fiducia piena della signora”.
“Qual’era il compito del nostro ufficio? Bella domanda – risponde Redaelli – se al mio arrivo svolgeva correttamente le sue funzioni, nel tempo è diventato ufficio alle ‘varie ed eventuali’. La signora lo ha ingolfato di compiti, accentrando anche la funzione di recupero crediti. Ero l’addetto alle bozze”.
Nel 2008 Redaelli diventa responsabili dell’ufficio personale. “Il mio inquadramento non è mai stato da dirigente – precisa – ma da impiegato, fino al settimo livello, e solo nell’ultimo anno ero passato a quadro”.
Ferie e permessi negati
“In Gilardoni nessuno poteva decidere se non Cristina Gilardoni. Non avevamo alcun potere decisionale, serviva sempre la sua approvazione”
Lo stesso valeva per le ferie e i permessi richiesti dai dipendenti e spesso negati, anche quando si trattava di assenze per la partecipazioni a funerali. “La signora visionava ogni richiesta, le approvava con la sua sigla o le rimandava indietro con commenti scarabocchiati per chiedere spiegazioni. Voleva che ogni giorno si facesse il promemoria delle persone assenti per ferie. Ero io – prosegue Redaelli – che avvisavo i reparti anche quando i permessi erano negati. Capitava allora che il singolo lavoratore mi chiamasse per rimarcarmi che si sarebbe dovuto recare ad un funerale o in gita con il proprio figlio. Io facevo una nota in modo che la signora potesse leggerla, perché segnalarle il problema verbalmente era impossibile”.
Ci sono poi i permessi negati per le donazioni del sangue: “Quando Comi le ha suggerito che all’Avis si poteva andare anche a sabato, Cristina Gilardoni non ha voluto più saperne di permessi durante la settimana”
Redaelli racconta di essersi visto lui stesso negato un permesso: “Il problema c’è sempre stato. Anche io ne avevo fatto richiesta, dovevo testimoniare in tribunale a seguito di un incidente stradale in cui era rimasta coinvolta mia sorella. La signora non voleva concedermelo, con difficoltà ha acconsentito dicendomi però che mi avrebbe scalato un giorno di ferie”.
E sull’argomento ferie l’ex capo del personale arriva a commuoversi ricordando: “potevo prendere solo una settimana di riposo a Ferragosto e la signora mi chiamava comunque decine di volte al giorno, anche quando ero in spiaggia con la mia famiglia. Un’estate sono dovuto rientrare qualche giorno prima dopo un litigio tra lei e una collaboratrice”.
Gli insulti
“Statisticamente parlando, ero quasi sempre nel mio ufficio, quando sentivo la signora urlare uscivo per capire cosa stesse succedendo, cercavo di intervenire e di calmarla. Me ne accorgevo da me o venivo chiamato quando il fatto era già successo ” racconta Redaelli passando in rassegna, su domanda prima del suo avvocato poi del pubblico ministero Pietro Bassi, gli episodi di insulti rivolti dalla titolare ad alcuni dei dipendenti.
Redaelli racconta anche dell’unico momento, dice, in cui è dovuto intervenire ‘fisicamente’ su un lavoratore per placare il dipendente: “Con la signora si litigavano dei documenti, guardo e vedo De Martin che le tira una manata. Io l’ho preso fisicamente per cercare di calmarlo e l’ho lasciato subito dopo. Sono intervenuto perché un uomo stava picchiando una donna, lo rifarei”.
“Nessuno si metteva in mezzo quando la signora rimproverava i dipendenti, tutti si ‘imboscavano’. L’insegnamento che ho imparato nei primi due anni è stato questo, farsi i fatti propri altrimenti saresti stato il prossimo ad essere preso di mira”.
Qualche parola di troppo sarebbe scappata anche a lui, ammette, “a De Martin ho detto ‘il coglione sei tu’ ma in risposta ad una critica da lui precedentemente rivolta alla signora, una scena simile è accaduta con un altro collaboratore, ero arrabbiato perché entrambi eravamo stati redarguiti dalla signora per un suo errore”.
I provvedimenti sui lavoratori
Dipendenti ed ex dipendenti avevano denunciato un clima di intimidazioni che avveniva anche tramite lettere di richiamo e provvedimenti formali nei loro confronti, fino a giungere al licenziamento o alle dimissioni volontarie.
Anche in questo caso Redaelli sottolinea il ruolo principale della titolare e l’influenza del consulente del lavoro: “Capitava che cercassi di intervenire per fare desistere la signora dal prendere provvedimenti verso il dipendente, quando invece Comi suggeriva di lasciarlo a casa. Cercavo di farla… non dico ragionare perché non ragionava, di farla riflettere”.
“Prima mi ascoltava di più, negli ultimi anni diceva ‘decido io, punto’. C’è stato un forte irrigidimento”.
Una ventina, ricorda Redaelli, sono stati i licenziamenti avvenuti solo tra il 2012 e il 2016. Quanti hanno fatto ricorso? “Tutti – risponde – hanno fatto vertenza”.
“Cristina e Marco Gilardoni hanno lo stesso DNA”
Su domanda della sua difesa, Redaelli parla anche dei rapporti conflittuali tra Maria Cristina e il figlio Marco. “Rapporti che definirei pietosi, litigavano tutti i giorni, si scambiavano parolacce, lei si chiudeva in bagno, lui la rincorreva – racconta – è stato lui a dare una sberla a sua madre e non il contrario”.
“Ma quando mai?” ha mormorato dai banchi del pubblico Marco Gilardoni, che fino a quel momento aveva assistito in silenzio a tutta la deposizione di Redaelli, così come i rappresentanti dei sindacati e le Rsu.
Redaelli insiste sul conflitto mamma-figlio che, a suo dire, avrebbe influito fortemente sul clima in azienda, divisa in due schieramenti: “C’era chi era simpatico alla signora e chi invece stava simpatico a Marco, il problema era stare nel mezzo. Marco Taccani Gilardoni ha lo stesso DNA di sua madre, parolacce le ho sentite pronunciare anche a lui, solo lo facevano con persone diverse”.
I rapporti con i sindacati
I sindacati? “Facevano la loro parte in un gioco di parti, ma in passato i rapporti non posso dire fossero cattivi – racconta Redaelli – il cambiamento c’è stato con il cambio dei sindacalisti. Ai precedenti sono subentrati referenti più giovani e con meno esperienza, anche le Rsu erano cambiate, non erano a livello di Comi che faceva quello che voleva e parlava per due ore agli incontri. Le soluzioni non si trovavano più anche per un irrigidimento delle posizioni sindacali”.
Redaelli, pur essendo capo del personale (ma pur sempre dipendente, ricorda) ammette di aver partecipato anche assemblee dei lavoratori. “Succedeva anche prima del mio incarico. Non ero io che appuntavo i nomi dei lavoratori presenti alle assemblee – risponde alla domanda del pubblico ministero – ma le collaboratrici in ufficio, conteggiando le timbrature, perché la signora voleva subito sapere quanti lavoratori stessero partecipando”.
Una presenza, quella di Redaelli alle assemblee, ‘ingombrante’ per i sindacati che hanno poi deciso di spostare fuori dall’azienda la sede delle riunioni, affinché i lavoratori potessero parlare liberamente. “Mi schernivano. Dicevano ‘se non esce lui, allora ce ne andiamo noi’”.