RUBRICA – Sono passati solo due mesi dalle note sentenze della Suprema Corte, n. 11504/17 e 11538/17 stesso collegio della Prima Sezione Civile, che tanto hanno fatto discutere in tema di commisurazione dell’assegno di mantenimento.
Tanto fragore che a molti addetti ai lavori è parso eccessivo.
La differenza tra la natura dell’assegno di mantenimento, riconosciuto al coniuge economicamente più debole in sede di separazione e da tempo rapportato al cd. tenore di vita precedente e dell’assegno divorzile, ricondotto invece a necessità di ordine assistenziale, è da sempre nota.
La reale questione è che mentre prima dell’introduzione del divorzio breve, per poter chiedere il divorzio si doveva attendere tre anni dall’omologa della separazione, l’assegno di mantenimento aveva un senso rapportato a tale durata; oggi ha perso di significato riconoscerlo in misura e con criteri così diversi rispetto al definitivo assegno divorzile di cui, di li a pochi mesi, il coniuge più debole economicamente dovrà accontentarsi.
Inutile quindi mettere in campo criteri restrittivi dell’assegno di mantenimento, ormai superato, ma semmai sarà necessario rivedere i criteri che portano alla quantificazione di quello divorzile, diventato di per se l’unico ottenibile sul lungo periodo, dopo la cessazione del vincolo matrimoniale.
E qui si torna al carattere assistenziale di detto assegno divorzile, perché i coniugi da quel momento perdono ogni legame giuridico e dovrebbero di per se rifarsi una vita da soli, senza contare sui fasti della vita matrimoniale.
Ben venga allora il criterio della possibilità di essere economicamente indipendenti, di mettere a frutto le proprie capacità e gli studi fatti, nonché di tener conto del patrimonio di uno e dell’altro nel senso più ampio.
Rimane un però, a mio avviso: non dimentichiamo che per il nostro diritto il precedente giurisprudenziale non è vincolante, che il Giudice ben può discostarsene se nel caso di specie ravvede motivi per decidere in modo diverso.
La funzione nomofilattica delle decisioni della Suprema Corte, ovvero di indirizzo e per garantire un’interpretazione uniforme delle norme, non prevale sulla necessità e sul potere del Giudice di valutare caso per caso.
E allora, non sarà impossibile vedere in futuro corti che riconosceranno assegni divorzili (inutile discorrere di assegno di mantenimento che potrebbe durare anche solo pochi mesi, il buon senso vorrebbe che si parlasse solo di valorizzazione di un unico tipo di assegno) congrui e non lontani dall’ormai superato ‘mantenimento dello stesso tenore di vita’, al coniuge più debole economicamente, non indipendente e non più giovane tanto da potersi riemettere nel mondo del lavoro, che magari ha donato tutta la sua vita alla cura della casa e della famiglia, negandosi carriere professionali, magari richiesto o imposto dall’altro coniuge, magari anche lavorando nelle aziende familiari, ecc…
Non si potrà nelle decisioni future non tenere in conto che la parità tra i sessi non è stata realmente raggiunta e che le donne hanno redditi inferiori agli uomini, ma anche che molte donne si mantengono già da sole o sarebbero comunque in grado di farlo anche dopo la fine del loro matrimonio.
Ancora una volta starà alla sensibilità ed al buon senso del giudicante nell’applicare la legge dare il giusto valore alle due sentenze che tanto clamore hanno suscitato nei mesi scorsi.
A maggior ragione starà ancora a noi difensori il compito più delicato e decisivo di mettere in luce, argomentare ed allegare quanto sarà necessario per fotografare al meglio la situazione dei ns. assistiti ed aiutare i giudici nel difficile compito di decidere di parte del loro futuro, che non è nulla di più o di diverso da quanto affermato dalla stessa della Prima Civile n. 11504/17 interviene precisando che il Giudice deve “tener conto”, nella fase del quantum debeatur informata al principio della «solidarietà economica» dell’ex coniuge obbligato alla prestazione dell’assegno nei confronti dell’altro in quanto “persona” economica- mente più debole (artt. 2 e 23 Cost), il cui oggetto è costituito esclusivamente dalla determinazione dell’assegno, ed alla quale può accedersi soltanto all’esito positivo della prima fase, conclusasi con il riconoscimento del diritto -, di tutti gli elementi indicati dalla norma («[….] condizioni dei coniugi, [….] ragioni della decisione, [….] contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, [….] reddito di entrambi [….]»), e “valutare” «tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio», al fine di determinare in concreto la misura dell’assegno di divorzio; ciò sulla base delle pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte, secondo i nor- mali canoni che disciplinano la distribuzione dell’onere della prova (art. 2697 cod. civ.).
Lette in quest’ottica le novità tanto sbandierate nei mesi scorsi mi paiono nulla più che in parte la logica conseguenza del divorzio breve, dall’altra solo l’applicazione a casi specifici delle norme vigenti secondo la sensibilità dei giudicanti, come sempre deve essere, con esiti che non è detto verranno applicati a tutte le separazioni e/o i divorzi in futuro nello stesso modo.
Ci vorrà ancora tempo per poter approfondire questa breve riflessione… e dare il giusto peso alle note sentenze.
Avv. Daniela Ghisalberti
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