“…massì, basta con questo sport vissuto come sofferenza… io mi diverto ancora come quand’ero ragazzino…” parole del nostro atleta, Fabrizio Donato, mentre viene intervistato per il bronzo conquistato nel salto triplo. Alla luce di quanto successo ai nostri atleti in questa settimana, mi nasce spontaneo un “bravo, ci voleva”. Perchè in effetti, fra le tante gioie vissute e le medaglie vinte (successi straripanti in alcuni casi), ci stavamo addentrando in un buco nero psicologico, tutto a causa di una serie di sfortunate coincidenze in cui il denominatore comune è la “sofferenza”…
Come spesso capita, le emozioni negative, forse anche perchè maggiormente romanzabili dai media stessi, ma soprattutto perchè parte della natura umana che si vede sempre in “difficoltà” un po’ su tutto, hanno preso forza, in questi ultimi giorni per la truppa italiana, in forme e modi decisamente diversi, in un’insolita escalation:
– Sofferenza per un nuoto che non va (eccezion fatta, al momento in cui scrivo, per la Grimaldi), o forse perchè gli altri vanno ormai davvero troppo! Atleti che decidono di fermarsi, altri che litigano. Una brutta caccia ai “colpevoli” quando forse, semplicemente, un risultato negativo “accade” e bisogna solo pensare a come trovare un cambio di rotta per il futuro.
– Sofferenza per 20 centesimi, per un’olimpiade che sembra possedere una maledizione, per i giudizi (in)opinabili dei giudici. Quanta forza psicologica, quanta resilienza e motivazione interiore deve avere un atleta negli sport in cui non c’è un parametro oggettivo come un cronometro, una misura, un traguardo, ma il tuo destino è deciso da una giuria… (Solo per questo un grande applauso i nostri atleti se lo strameritano). Si pensava che peggio di così non potesse andare e invece…
– Sofferenza per un punteggio… pari! Dopo anni di sacrifici su più piani: sportivo, fisico, relazionale, evolutivo. La brava Vanessa l’aveva più volte dichiarato: “in un’altra vita col cavolo che faccio di nuovo la ginnasta”. Parole comprensibili, che però fanno anche capire che tipo di rapporto si sia instaurato con quella che tanti anni fa era la sua prima passione.
– Sofferenza per (brutta parola, ma inevitabile) doping. Non entrerò nel merito, è successo, stop. Piuttosto è una dichiarazione del nostro atleta a farmi riflettere: “…lei (ndr Carolina Kostner) pattina perchè le piace, io questo sport lo faccio perchè sono bravo… ” e poi “…Non ho piacere ad allenarmi 35 ore a settimana facendo sempre la stessa cosa…”.
C’è sport e sport, bisogna ammetterlo, alcuni richiedono investimenti personali decisamente superiori ad altri, ma poco importa. Facciamo qualcosa di più utile: proviamo a fermare la ruota, non lasciamoci trascinare nel vortice dei singoli episodi ma mettiamoci a fare una semplice osservazione: avete notato come spesso gli atleti che poi vincono, sono anche quelli che prima e durante la loro prestazione sportiva emettono una sorta di “forza”, un’energia positiva, una sensazione di leggerezza e serenità all’interno della profondità del momento sportivo?
Non mi stancherò mai di ripeterlo: un atleta che nutre dentro di sè un profondo divertimento in quello che fa, è di sicuro un atleta in grado di sfruttare al 100% il proprio potenziale. E quando un individuo raggiunge la pienezza del sè non potrà che essere soddisfatto, al di là del risultato finale, con se stesso.
E’ una regola talmente banale, ma a mio modo di vedere così “scientifica”, che potrebbe davvero fare la differenza se applicata con metodo all’interno delle nostre strutture sportive.
Fa un po’ effetto l’idea di un “educare al divertimento con lo scopo di ottenere il top prestazionale” ma questo è, senza se e senza ma.
Chiudo con una dichiarazione della Idem: “Stare con la mia famiglia mi ricorda che lo sport è bello, la vita è altro: non mi identifico con le mie medaglie perché poi se vai in crisi non ti rimane altro”.
Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport
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