Le Olimpiadi sono in mezzo a noi. E’ bello vedere come un evento sportivo catalizzi l’interesse collettivo per qualcosa di così positivo. Non sono certo uno di quegli estremisti dalla lamentela facile: “Ecco, adesso tutti si scoprono amanti della canoa o del tiro con l’arco”. A me francamente fa piacere sentire un po’ tutte le voci, sia quelle esperte che quelle presunte tali! In fin dei conti è persino divertente vedere le mamme esultare per i successi di squadra nel fioretto, sebbene quasi tutte conoscano solo la Vezzali…
Dirò di più: è giusto così, lo sport va preso come divertimento, proprio per questo ognuno è libero di viverlo come gli pare e con la profondità che vuole. Sia chiaro, ben diverso è il caso di chi sale sul carro dei vincitori quando fa comodo perchè c’è un interesse personale sotto, io invece mi riferisco al pubblico di massa, che condivide gioie e dolori per pura empatia.
Si parla di emozioni in effetti, che è un po’ il tema di questa Olimpiade. Non so se ci avete fatto caso, ma mai come in questa edizione si era parlato tanto di come le emozioni e la gestione dello stress siano fattori determinanti nella prestazione (e in questo caso specifico, nel risultato vero e proprio). Forse perchè sono caduti tanti miti da cui ci si aspettava molto, apparentemente senza motivo (del resto anche il tifoso occasionale ha delle aspettative 🙂 ) oppure più semplicemente perchè si è visto come la preparazione fisica, tecnica, strategica siano pressochè identiche fra un atleta e un altro e allora ci si chiede: “Cosa fa la differenza?”.
Nel momento in cui scrivo due episodi sono rappresentativi: il primo è l’ormai famoso “10 per l’oro” ottenuto da Frangilli, il secondo, che per quanto mi riguarda è ancor più impressionante, è il miracolo della Vezzali nella gara individuale.
In quest’ultimo caso si è trattato di un intenso, determinato, feroce cambio di rotta.
C’è da considerare l’antefatto: la semifinale persa. Senza nascondersi troppo, la Vezzali era alle Olimpiadi per vincere, molto probabilmente per vincere per l’ultima volta. Perdere contro “la” rivale con cui non scorre buon sangue (premetto che non sono abbastanza dentro per sbilanciarmi troppo, ma fra libro e interviste in tv le due sportive non si sono certo risparmiate) è stato sicuramente un colpo tremendo. Basta guardare l’ultimo assalto e il volto distrutto dell’atleta jesina.
Ora la rivediamo lì, a lottare per un terzo posto, sotto di 4 stoccate a poco più di 12? 13? 14 secondi? Poco importa, “tanto non ce la può fare, non c’è tempo”. Fine.
Eppure… una scintilla, una fiammata, molto più probabilmente un “reboot” (il computer che resetta e riavvia il software) che possiamo provare ad ipotizzare: “basta pensare al tempo, ai punti, all’oro a tutto… parto e colpisco, parto e colpisco, parto e colpisco, parto e colpisco…”. E lo fa. E quando vedi che lo puoi fare una volta, allora forse lo puoi fare due, tre, quattro. E ci riesce.
Credo che finora sia stato il momento più alto di queste Olimpiadi. La magia di una forza interiore che, non a caso, le ha permesso di vincere così tanto in carriera.
Il pensiero è una brutta bestia certe volte, tanto ci serve in certi momenti, tanto a volte può diventare un limite. Però in fin dei conti siamo noi che lo utilizziamo. Dobbiamo entrare nell’ottica che così come sono in grado di controllare varie parti del corpo, allo stesso modo possiamo farlo con la mente stessa. Dobbiamo solo decidere cosa fargli fare nel momento giusto. Il vero limite è soltanto l’abitudine a farlo. Culturalmente non siamo abituati ad “allenarlo”: lo riempiamo di informazioni durante la nostra vita attraverso gli studi, ma non siamo granchè istruiti a capire come farlo funzionare a regime nelle situazioni stressanti: ci si limita a testarlo sul campo e quasi mai a prepararlo in previsione di una difficoltà.
Però implicitamente ammettiamo questo elemento quando citiamo “l’atleta di esperienza”: colui che sa come ci si sente, che sa cosa lo aspetta, che sa quali sono le possibili difficoltà e situazioni a cui potrà andare in contro poichè… egli ne sa. Ma io che non so, posso sapere? Certo! E’ sufficiente prepararsi ai possibili scenari a cui si andrà incontro, soprattutto da un punto di vista emotivo. Non è un lavoro facile, deve essere metodico, continuativo, profondo, ma quando è ben fatto è davvero utile. C’è però una nota stonata a fronte di questa considerazone: a Londra il CONI non ha portato con sè nessuno psicologo dello sport ufficiale, certamente alcuni atleti sono seguiti privatamente, ma fa un certo effetto pensare che l’Italia non si dia da fare su un elemento che al momento fa da padrone alle Olimpiadi…
Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport
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