7 marzo, il ricordo
di Galbani: “Vi lascio
in eredità la libertà”

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LECCO – Si è svolta sotto una leggera pioggia la cerimonia in ricordo dei fatti avvenuti a Lecco il 7 marzo 1944, quando in seguito a uno sciopero una trentina di lavoratori furono arrestati e poi deportati in Germania. Tra di loro anche Pino Galbani, uno dei pochi sopravvissuti a quell’inferno, che da anni continua a raccontare, specialmente agli studenti più giovani, quanto accaduto per non dimenticare.

“Raccontare agli studenti significa tenere viva la memoria – ha affermato Pino Galbani – perché un popolo senza memoria non è degno d’avere un futuro”. La cerimonia in memoria dei lavoratori lecchesi arrestati e deportati in seguito allo sciopero del 7 marzo 1944 si è aperta con una messa nella chiesa di Castello ed è poi proseguita con un corteo fino al giardino di via Castagnera, dove Pino Galbani ha deposto un mazzo di fiori ai piedi del monumento che ricorda il sacrificio dei caduti lecchesi.

Infine l’incontro pubblico nell’aula magna dell’istituto ex Bovara, alla presenza delle autorità cittadine e di diversi studenti. La testimonianza di Galbani è stata preceduta dall’intervento del professor Andrea Bienati, studioso di storia delle deportazioni, che ha ricordato come “lo sciopero del marzo ’44 è stato qualcosa di sconvolgente, un evento catastrofico per l’Asse e sbalorditivo per gli Alleati: era la prima volta che dei lavoratori si ribellavano apertamente al nazifascismo, dimostrando che si poteva stare liberi anche dentro un totalitarismo”. A intervallare i diversi interventi, alcuni brani musicali a cura di Angapiemage Persico al violino e Andrea Cusmano alla fisarmonica: “la musica come l’arte e la cultura – ha precisato il violinista Persico – nelle intenzioni del regime andavano cancellate, si diceva che certe melodie di origine ebraica portassero delle malattie alle orecchie: oggi quindi, proprio per questo motivo, abbiamo deciso di proporvi alcuni di questi brani”.

Quindi è stata la volta di Pino Galbani, che ancora una volta ha emozionato i presenti con il racconto del suo arresto, della deportazione e della prigionia nel campo di concentramento di Mauthausen. “La voce di uno sciopero proclamato per chiedere la fine della guerra e un piccolo aumento salariale per far fronte ai generi di prima necessità come il pane, che era razionato ma poi si trovava sul mercato nero a prezzi maggiori – ha raccontato Galbani – si sparse velocemente in tutte le fabbriche e vi fu un’adesione volontaria da parte dei lavoratori”. “Purtroppo alla Bonaiti – ha continuato il deportato lecchese – mentre i lavoratori giornalieri e quelli del turno pomeridiano discutevano dello sciopero mattutino, verso le 14 le camicie nere entrarono abusivamente dal passo carraio sul retro e obbligarono gli operai a lasciare il lavoro”. “Gli scioperanti lecchesi furono quindi legati come se fossero dei criminali e fatti sfilare per le vie della città – ha ricordato ancora Galbani – prima di essere trasferiti in una palestra di Como che fungeva da carcere. Dopo otto giorni furono portati nello scantinato della biglietteria di Lecco, ma senza poter parlar con nessuno, e da qui a Bergamo, dove avvenne il baratto della vita degli operai tra fascisti e tedeschi”.

Da questo momento comincia un viaggio infernale, “la cui destinazione – ha precisato Galbani – era a noi ignota: solo le SS sapevano dove stavamo andando ed erano sicuri che nessuno di noi sarebbe riuscito a tornare per raccontare gli abusi, gli eccidi e le violenze che si vivevano nei campi di concentramento”. “Arrivai a Mauthausen il 21 marzo 1944 – ha proseguito Pino Galbani – ma quello che è successo lì dentro non è vita, eravamo considerati al di sotto degli esseri umani. Ci hanno rasato e denudato, poi ci hanno consegnato una divisa di tela a righe, un triangolo rosso e un numero con il quale siamo stati chiamati per tutta la prigionia. Nel campo siamo stati cancellati dalla società, eravamo delle larve umane in cerca di cibo o di qualche amico, ma ricevevamo solo calci e pugni”. “L’unica immagine di gioia che ricordo all’interno di quel luogo colmo di dolore – ha ammesso commosso Galbani – è quella legata al ritrovamento di Guido Brugger, un lecchese che però non conoscevo, disteso sul fianco: ammetto di aver pianto sulla sua spalla perché è stato un incontro inaspettato. Con lui ho vissuto un momento di solidarietà umana altissima: siccome lavorava in fabbrica, gli ho chiesto un cucchiaio di legno per la zuppa e lui mi ha regalato il suo! Io invece lavoravo all’aperto e in cambio ho promesso di fargli avere alcune patate che con i compagni di baracca rubavo nei campi vicini”.

Alla fine è arrivata la liberazione anche per il campo di Mauthausen e il ritorno a casa per Galbani: “le lacrime represse per troppo tempo sgorgarono – ha ricordato ancora Galbani – ma erano lacrime di dolore e non di gioia, perché ero rimasto solo, senza compagni lecchesi. Per un momento sono stato travolto da un sentimento di odio e di vendetta, ma ben presto ho capito che la gioia per essere sopravvissuto doveva bastare per tutto il dolore subito e la violenza sofferta. La gioia per esser riuscito a tornare a casa fu presto accantonata, perché la gente e i parenti dei compagni rimasti in Germania non capivano quello che avevamo vissuto: così – ha ammesso Galbani – fino al 1995 ci siamo chiusi nel nostro dolore, senza più parlarne con nessuno. Solo la visione e lo scalpore del film girato dagli inglesi a Dachau ci ha spinto a riprendere la testimonianza e gli incontri, soprattutto nelle scuole”. “E’ quindi a voi giovani – ha concluso Pino Galbani – che lascio in eredità la libertà conquistata, è vostra: godetevela e fatela rispettare, amatela e fatela amare, ma rispettate sempre i suoi confini. Vi auguro di ristrutturare il mondo con l’amicizia e parallelamente con la pace: solo quando i popoli impareranno a essere amici, potremo e potrete avere la pace”.