“Dietro una stagione di cinque invernali”, dagli archivi Gamma uno scritto del 1998 di Marco Anghileri

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Manuele Panzeri, Andry Dell'Oro, Marco Anghileri, Valerio Carotta prima invernale della via Sonia (foto archivi Marco Anghileri e mamma Marinella Castelnuovo tratta dal libro La scala dei sogni di Giorgio Spreafico)
Manuele Panzeri, Andry Dell'Oro, Marco Anghileri, Valerio Carotta prima invernale della via Sonia (foto archivi Marco Anghileri e mamma Marinella Castelnuovo tratta dal libro La scala dei sogni di Giorgio Spreafico)

L’articolo, pubblicato per il 20° del gruppo, ripercorre un inverno 1996/1997 particolarmente prolifico

“Quattro mesi pazzi che mi hanno portato a salire di seguito ben cinque invernali…”

LECCO – A quasi 25 anni dalla sua prima pubblicazione, riproponiamo uno scritto a firma dell’alpinista lecchese Marco Anghileri (scomparso nel marzo 2014) che ripercorreva una stagione invernale particolarmente significativa. L’articolo fu esclusivamente pubblicato nel giugno 1998 dal Gruppo Gamma di Lecco in occasione del 20° di fondazione sull’apposita edizione avente come titolo “Alpinismo e territorio nella tradizione e nel nuovo”.

La prima solitaria invernale alla parete Nord-Ovest della Civetta lungo la via Solleder sarebbe arrivata un paio di anni più tardi, nel gennaio 2000; questo articolo fa riferimento all’inverno 1996/1997. Una bella testimonianza (soprattutto per chi Marco Anghileri l’ha conosciuto) che riemerge dalla polvere del tempo e che restituisce il fermento in ambito alpinistico nell’ambiente lecchese.

DIETRO UNA STAGIONE DI CINQUE INVERNALI
di Marco Anghileri

Mi piace la compagnia, mi piace stare a parlare, soprattutto con i miei amici alpinisti del Gruppo Gamma, mi piace ridere e scherzare, ma mi piace anche ritirarmi tutto solo in me stesso, come quando nel bivacco solitario mi sento come avvolto in un nido e avverto quelle esperienze interiori che non tollerano le distrazioni che normalmente consideriamo
irrinunciabili.
Ma che centra tutto questo con il problema che mi sto ponendo, di venire a capo di questi
quasi quattro mesi pazzi che mi hanno portato a salire di seguito ben cinque invernali? Forse avverto – più da uomo rispetto all’alpinista – che la mia propensione ad una vita
estroversa, unita però all’esigenza di una consapevolezza piena, che non si può raggiungere che nella solitudine, stiano alla base dell’intenso e diversificato periodo da me vissuto nella stagione invernale appena trascorsa. A ciò devo aggiungere la circostanza eccezionale di un banale incidente in bicicletta, che mi ha tenuto alquanto lontano dalla
montagna nell’estate, lasciandomi in corpo una gran voglia di recupero e di rivincita.
È così che la stagione delle invernali comincia ben presto, cogliendo appunto l’occasione
delle vacanze natalizie per correre a ridosso delle Dolomiti, dove alle Pale di San Lucano
voglio rendere realtà l’idea di salire in prima invernale e prima ripetizione assoluta una
delle numerose vie di quelle parti, la via Sonia. È da alcuni anni che penso alla ripetizione
di questa bellissima via, che due grandi amici, Manuele Panzeri e Mario Valsecchi, hanno
aperto nell’89: 1000 metri con difficoltà fino al 7° e A2, su roccia veramente bella. Altro
stimolo importante per deciderci verso questa avventura credo sia stato per noi tutti la
voglia della compagnia, il senso del gruppo. Fino a quel momento le esperienze più
impegnative in montagna le avevo vissute o da solo o con un solo compagno.
Sulla via Sonia volevo invece vivere adesso un’avventura complessa ed importante in
compagnia di parecchi amici. Questa salita doveva poi rappresentare un test di grande
validità, in quanto facendo tutti parte del gruppo Gamma di Lecco ed avendo nei programmi di un prossimo futuro l’impegno di indirizzarci verso le montagne extraeuropee,
non poteva esserci ora niente di meglio che una bella impresa di gruppo per poter valutare
la profondità e la tenuta della nostra amicizia. Ed in effetti per me, abituato a muovermi da
solo, o con un altro compagno al massimo, trascorrere quattro giorni in parete insieme con
altri tre amici è stata un’esperienza fantastica. Confronti se sia meglio da solo o insieme
con altre persone è difficile farne, o meglio impossibile. Tutto nasce dentro di me, e scelgo
al momento di muovermi solo oppure no. In quell’istante infatti sento di poter vivere bene e dare il massimo in un modo invece che nell’altro, e quindi, ascoltando queste sensazioni,
mi ritrovo in montagna con o senza compagni. Ci sono delle differenze, certo, ma nessuna
più positiva o più negativa: tutte comunque, in un caso o nell’altro, hanno lo stesso valore.
L’esperienza sulla via Sonia mi ha reso consapevole di altre due significative realtà. La
prima l’ho vissuta all’ultima lunghezza della salita, un tiro chiave: affrontandolo al buio, con
un freddo cane (erano i giorni più freddi dell’anno), stremato per quattro giorni di continua
arrampicata, sono riuscito, come per incanto, ad allontanare le paure, le inibizioni, le
angosce che a volte mi frenano nell’arrampicata. Senza nemmeno rendermi conto dei
passaggi e delle difficoltà, mi sono ritrovato in cima come fossi salito in uno stato di estasi,
senza aver rinviato i chiodi sui tratti più delicati per fare in modo che la corda venisse, ma
soprattutto con la sensazione che ad arrampicare non fossi stato io, che invece mi vedevo
nei panni dello spettatore. Una sensazione stranissima da interpretare, nello stresso
tempo indicibile e della quale non si finirebbe mai di parlare: una dimensione interiore alla quale non mi era mai riuscito di avvicinarmi tanto, pur essendone sempre alla ricerca in
modo inconscio.
L’altra scoperta risultata poi determinante per la seconda di queste salite invernali, ha
trovato lo spunto in birreria, la sera prima di attaccare la Sonia. Eravamo in cinque allora,
prima della rinuncia di un compagno che purtroppo doveva abbandonare per la rottura
degli occhiali, e con il materiale per due/tre bivacchi pensavamo di salire in maniera
“classica”. Una sola cordata: il primo fa il tiro, il secondo sale un po’ con i jumar e un po’
arrampica, poi, mentre gli altri salgono con le maniglie, il primo sale di nuovo, e così via.
Però, con le previsioni che annunciavano l’arrivo di una perturbazione entro un paio di
giorni e considerato che la parete era in ottime condizioni, è stato un lampo pensare ad
una soluzione diversa, rischiosa ma nello stesso tempo stimolante: salire il primo giorno lo
zoccolo con tutto il materiale per bivaccare, lasciare poi in posto, il giorno seguente, gran
parte del materiale, ed attaccare la via in due cordate distinte, leggeri e veloci, nel
tentativo di uscire in giornata.
Tanti i motivi pro e contro: al massimo si sarebbe rischiato di affrontare gli ultimi tiri al buio (cosa che comunque successe) o di passare una notte intera a tremare letteralmente dal freddo, disponendo del minimo indispensabile. Purtroppo quella sera l’idea non fu accolta dai miei compagni e, pur se la salita è stata felicemente realizzata, in me era rimasta l’insoddisfazione dell’alternativa.
Per questo stimolo e soprattutto per la curiosità di verificarne la realizzabilità, venti giorni
dopo, in compagnia di Valerio, uno dei compagni della via Sonia, ero lì di nuovo, di fronte
ad una via molto simile, ma da affrontare come volevo io. Infatti, dopo il bivacco in cima
allo zoccolo, abbiamo salito in prima ripetizione e prima invernale la via dei Finanzieri sulla
Quarta Pala di San Lucano, con materiale ridotto ai minimi termini. Notevole la differenza
di questa soluzione, che ci consentiva di giungere in cima in sole otto ore di arrampicata. È
stata questa per me un’esperienza estremamente positiva, servita a confermarmi che,
quando ci si sente preparati, si possono individuare soluzioni brillanti e vincenti, che a
volte difficilmente possono essere ritenute possibili. Quest’impresa si è inoltre rivelata per
me importante per avermi consentito di compiere nella mia esperienza alpinistica una
tappa indispensabile per far maturare il mio senso critico nella prospettiva dei progetti
futuri.
Ritorno con Valerio in Dolomiti, questa volta alla Marmolada, prima di effettuare la terza
invernale dell’anno. Fa parte delle cose in cui credo, da quando vado in montagna, dare
importanza alle sensazioni che determinano la mia scelta per una salita, e cioè, oltre a
quelle che si vivono durante l’azione, quelle che la precedono, quelle che mi portano a
sognare la montagna e il modo di viverla in quel momento. E poi le tappe, la gradualità nel
raggiungere il massimo della preparazione fisica e psicologica. Avevo voglia di vivere da
solo una parete, come la Sud della Marmolada, su una via difficile, nella stagione fredda.
Dovevo però prima verificare se ero nelle condizioni psico-fisiche ideali, e per questo mi
trovavo ora su una, credo, meravigliosa via: Estasi. Dico credo perché, purtroppo, al
settimo tiro la rovinosa caduta del mio compagno, conclusasi con la distorsione di cinque
legamenti alla caviglia ed alcuni punti di sutura, ed anche le condizioni climatiche
primaverili, non mi avevano dato la possibilità di fare un chiaro punto della situazione.
I pochi tiri fatti mi permettevano comunque di farmi sentire abbastanza carico
psicologicamente, e per questo, dieci giorni dopo, tornavo da solo sotto la parete Sud della
Marmolada.
La mia intenzione era di salire la via Olimpo, una via che ritenevo un test importante e
sufficiente per soddisfare il mio desiderio di sapere come mi sarei comportato trovandomi
solo su una grande parete, con difficoltà relativamente alte, in inverno.
Ho sperimentato tutto questo nei tre giorni che lì ho trascorso, potendo vivere la parete
nelle sue svariate situazioni invernali. Affrontare dei passaggi difficili con un clima gelido, apprezzare il tepore del sole nel pomeriggio del primo giorno, soffrire disperatamente la
sete per una notte ed un giorno intero per non essere riuscito ad arrivare in cengia al
primo bivacco, essere tormentato dallo sferzante vento freddo per tutto il secondo giorno,
ma ancora e soprattutto assaporare la sensazione di conoscermi sempre più, di sentirmi
comunque a mio agio, e godere per ogni meraviglioso tiro superato.
Eppure questa splendida salita mi ha lasciato degli strascichi di perplessità per due aspetti
contradditori che andavo individuando. Da un lato la chiara soddisfazione scaturita dalla
certezza di avere dentro di me una grande volontà e la capacità di riuscire nelle cose in cui
credo. Infatti, due giorni prima di attaccare avevo già trascorso una notte al rifugio e
lasciato parte del materiale al termine del primo tiro. Il giorno dopo, però, una notte di
bufera ed il tempo sempre cattivo mi avevano convinto a risalire per recuperare tutto e
ridiscendere alla macchina, con la decisione di mandare tutto a monte. Il terzo giorno
infine, con il tempo che andava migliorando, ero riuscito a ritrovare in me la gioia e la
voglia di rifare tutto ed attaccare di nuovo. Dall’altro lato, la sensazione di aver perso
l’attimo ideale per qualcosa che, forse, non potrà più ripetersi nella mia vita: questo nasce
dall’errore di aver considerato l’Olimpo come una prova, un test, rinviando lo scopo di
appagare le mie emozioni e curiosità in un’altra più impegnativa salita che, nell’intenzione,
avrei dovuto fare dopo di questa. Purtroppo, una volta a casa, ho cominciato a rendermi
conto di aver commesso un errore, ho capito di aver giocato le carte e di non essere più
nello stato di grazia ideale per poter soddisfare il desiderio che mi aveva portato in
Marmolada.
Tutto questo mi ha privato di quel massimo di soddisfazione che avevo sperimentato in
altre salite anche meno impegnative, soprattutto sulla Aste nell’inverno del ’93, alla
Nordovest del Civetta, in quattro indimenticabili giorni di arrampicata. Ma allora ero
veramente concentrato e cosciente che, quello che stavo facendo, era la soluzione ideale
per soddisfarmi senza mezzi termini.
Avevo commesso un errore di impostazione, ma non mi era passata la voglia di vivere la
montagna a modo mio. Le ultime due salite nascono appunto da questa particolare voglia
di essere impegnato più tempo ad affrontare la montagna. Per cominciare a soddisfarmì,
niente di meglio che una delle zone più belle delle Dolomiti, il Civetta, nella sua parte più
orientale, ai confini con il gruppo della Moiazza. Questa volta non sono solo ad affrontare
la parete Nordovest della Cima Busazza sulla via Casarotto: è con me Riccardo Milani, lui
pure del gruppo Gamma. Qui i problemi sono ben diversi da quelli di Olimpo: 600 metri di
arrampicata varia di camini, diedri e placche fino al 5+, tutti da fare con i ramponi a causa
della neve presente, 250 metri lungo una grande fessura strapiombante che dà la direttiva
di salita con difficoltà di A1, A2 e due tratti di 7°, infine ancora un centinaio di metri su
neve, con difficoltà più modeste, 4° e 4+. Per superare questa parete abbiamo effettuato
due bivacchi.
Credo che la Casarotto in Busazza sia il classico esempio di come a volte la storia che c’è
dietro una via rappresenti una delle cose più affascinanti: pensiamo a chi l’ha aperta,
come e con quali mezzi è stata salita: qui poi c’è anche il fatto che per la prima volta in
Civetta, e forse addirittura in Dolomiti, si sente parlare di 7° grado!
Le emozioni più grandi derivano sicuramente dal pensiero costantemente rivolto alla figura
di Renato Casarotto, presi da stupore ogni volta che venivano affrontati dei passi tutt’altro
che facili, al ricordo che lui li avesse superati avendo ai piedi pesanti scarponi. Man mano
che salivamo ed il tempo passava, cominciavo ad accorgermi che, forse, la via che
pensavo di fare subito dopo questa, per capire cosa poteva significare per me essere
impegnato più a lungo, non era più quello che veramente volevo.
Forse soprattutto per la stanchezza psichica dopo quattro dure invernali, nasceva infatti in
me la voglia di muovermi in altro modo, diciamo “più estivo”, oltre a quella di stare un po’
di giorni in parete. La conclusione sulla via in Busazza, infine, mi ha convinto a prendere la decisione.
Dopo tre giorni passati in zona d’ombra tra freddo e neve, l’arrivo in cima con

un caldissimo sole è stata la molla che mi ha fatto cambiare idea. Reduce poi
dall’esperienza della via Olimpo, mai come in questi attimi ho provato ad ascoltarmi ed a
capire ciò che realmente volevo. Non è facile fermarsi quando ci si trova a metà strada di
un progetto a lungo cullato, anche se si avverte di non aver più voglia di continuare.
Capivo che se avessi proseguito, quasi sicuramente sarei riuscito a portare a termine la
mia idea. Ma quanto mi avrebbe dato? Avrei sciupato degli attimi e delle situazioni che
sicuramente, vissuti in altra dimensione, mi avrebbero concesso molto di più. E così già
nella discesa pensai immediatamente ad un’altra scalata, in quanto la voglia di
arrampicare, quella, c’era ancora: il tutto però fatto nella maniera più simile possibile al
mio modo consueto di muovermi durante l’anno, leggero e veloce.
Scelsi ancora una volta di andare alle Pale di San Lucano, perché immergermi da solo in
quell’ambiente così bello e selvaggio poteva essere la fonte ideale per staccare ancora un
paio di giorni dal quotidiano. La via scelta fu ancora una Casarotto, sia perché mi
interessava salirla per la chiarezza e la logicità dell’itinerario, sia perché l’idea di ripetere in
una sola settimana due vie aperte da una figura così affascinante mi dava quasi il senso di
effettuare una ricerca del suo carattere.
Con un bivacco in cima allo zoccolo, otto ore di scalata (metà delle quali passate a
recuperare il seppur minimo ma necessario sacco) su difficoltà che vanno dal 4° al 6°, una
roccia purtroppo non bellissima, ma con condizioni primaverili, alle tre del pomeriggio del
14 marzo mi sono trovato in cima alla Quarta Pala di San Lucano a godermi un favoloso
panorama. Avevo tempo per guardare, ma anche per ripensare alla veloce e nello stesso
tempo lunga galoppata che avevo vissuto in questo inverno straordinario che volgeva
ormai al termine. Osservando l’uscita della via Sonia, mi si rendevano presenti le cinque
invernali di questa stagione, e provavo una infinita soddisfazione, pur avvertendo
un’enorme stanchezza a livello di psiche.
Niente a che vedere con l’entusiasmo che avevo provato nella discesa dopo la prima delle
invernali, carico com’ero di progetti immediati: ora invece avvertivo una situazione che non
rispondeva a sentimenti profondi, e l’unica prospettiva accettabile era quella di non sentire
e di non pensare a niente e riposare.
In quegli attimi si riescono a vedere in una luce obiettiva le decisioni più azzeccate, oppure gli irrimediabili errori, come quello che avevo compiuto all’Olimpo in Marmolada. Poi i pensieri si fanno più intensi, più pieni: ci si viene a chiedere il perché di tante cose, il senso stesso dall’andare in montagna. In fondo, raggiungere la vetta non è il tutto per l’alpinista, e forse nemmeno il più. Vedevo le uscite della via Sonia e nello stesso tempo quella dei Finanzieri, e mi sembrava che, nell’insieme di ambiente e posizione, una non fosse poi tanto diversa dall’altra. Perché allora quella gioia sempre nuova al termine di ogni scalata? La profonda soddisfazione della salita deve avere molte e diverse radici: vi rientrano quella della inebriante amicizia con compagni che condividono tutto con te e ti offrono senza riserve un aiuto prezioso e disinteressato, come quello di Mauro, di Walter, di Ettore.
E poi quella di sentirsi continuamente avvolto in un movimento interiore che ti accompagna in ogni passo della tua vita, che ti fa scendere nella profondità del tuo spirito, che ti rende evidente il bello, ti fa accettare il sacrificio; ti fa esplodere il “bravo” che ti gridi quando raggiungi la cima più difficile, un bravo che non vale per quello che hai fatto, ma per quello che sei.

CRONACA

  • Quarta Pala di San Lucano – via Sonia
    Primi salitori: Mario Valsecchi e Manuele Panzeri
    18/19/20 agosto 1989
    350m di zoccolo – 700m di parete: 7° – A2
    Prima ripetizione e Prima invernale:
    Marco Anghileri, Andry Dell’Oro, Manuele Panzeri e Valerio Carotta
    27/28/29/30 dicembre 1996
  • Quarta Pala di San Lucano – via Finanzieri
    Primi salitori: Luigi De Nardin, Daniele Ruggero, Aurelio De Pellegrini e Pietro Perrod
    7/8/9 novembre 1977
    350m di zoccolo – 700m di parete: 6+ – A2
    Prima ripetizione e Prima invernale:
    Marco Anghileri e Valerio Carotta
    17/18 gennaio 1997
  • Marmolada di Rocca – via Olimpo
    Primi salitori: Maurizio Giordani e Rosanna Manfrini
    20 e 27 luglio 1985
    1000m: 7+
    Prima solitaria e Prima invernale:
    Marco Anghileri
    21/22/23 febbraio 1997
  • Cima Busazza – via Casarotto
    Primi salitori: Renato Casarotto, Giuseppe Cogato e Giacomo Albiero
    28/29/30 maggio 1976
    950m – 7° – A2
    Prima invernale:
    Marco Anghileri e Riccardo Milani
    10/11/12 marzo 1997
  • Quarta Pala di San Lucano – via Casarotto
    Primi salitori: Renato Casarotto e Piero Radin
    23/24/25 maggio 1974
    350m di zoccolo – 700m di parete: 6°
    Prima solitaria e Prima invernale:
    Marco Anghileri
    13/14 marzo 1997