LECCO – Zamboni torna al Teatro della Società: sabato sera, l’ex chitarrista della storica band CCCP, si è esibito di fronte al pubblico lecchese con il suo “L’eco di uno sparo”, tratto dall’omonimo romanzo con il quale il musicista-compositore e autore si è aggiudicato il Premio Manzoni 2015 (vedi articolo).
Un riconoscimento che Lecco gli aveva conferito lo scorso ottobre proprio sul palco del teatro cittadino. Ad eleggerlo vincitore era stata la giuria popolare composta da 54 lettori selezionati dalle librerie lecchesi che hanno preferito il suo testo, edito da Einaudi, alle altre due opere finaliste in gara: “1960” di Leonardo Colombati e “Il tempo migliore della nostra vita” di Antonio Scurati.
Allora come sabato, lo accolto una gremitissima platea, segno del grande interesse dei lecchesi e lo stesso Zamboni si è detto piacevolmente sorpreso da questo affetto, “mi sento adottato da questa città” ha spiegato con emozione salutando il pubblico.
“Lecco è una città in cui è difficile suonare, anche nel periodo dei CCCP o CSI non è mai successo – ha raccontato a fine spettacolo – finora per me era sempre stata una città di passaggio verso la Valtellina. Venire qui con un romanzo e vincere il premio è stata una bellissima sorpresa”.
Il suo ritorno in città apre la rassegna teatrali “Altri Percorsi” con uno spettacolo concerto che, come il libro, racconta la storia di suo nonno Ulisse, squadrista e membro di un direttorio del fascio, che nel febbraio 1944 cade dalla bicicletta colpito alle spalle da uno sparo. Diciassette anni dopo, un’altra pallottola uccide il partigiano che sparò quel giorno, ma a impugnare l’arma è un compagno, un ex gappista responsabile a sua volta dell’uccisione di Ulisse.
Zamboni affronta così la storia più dolorosa e rimossa della sua famiglia e racconta il volto di un intero Paese, col suo eterno ripetersi di soprusi e vendette. Un viaggio interiore quello dell’autore che ha accompagnato un lavoro di ricerca negli archivi durato quasi otto anni. Una storia, quella di Ulisse, vissuta come un trauma per famiglia Zamboni, un tabù che l’autore ha voluto affrontare con la sua opera.
“Ognuno di noi è prigioniero del suo tempo, anche mio nonno lo era – ha spiegato – gli interessi che sentiva di dover difendere, per me potevano essere di parte sbagliata, ma è facile giudicare cinquanta, sessant’anni, dopo. Quello che provo verso di lui è riconoscenza e affetto perché senza mio nonno non avrei potuto fare i conti con la storia della mia famiglia, è come se fosse stato sempre sorvegliato e accompagnato da lui in questo percorso. E’ bene fare i conti con il proprio passato, guardarsi attorno e sentirsi inseriti in una lunga catena cromosomica di cognomi, ti consegna a non vivere solo per te stesso perché, come tutti, sei, trascorrerai e lascerai qualcosa agli altri”