Il mondo è un intreccio. Riflessioni sull’integrazione culturale

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Il mondo è cambiato e , con una rapidità che non può non sorprendere, continua a cambiare, ben più di quanto la volontà dei singoli individui pretenda di dominarlo. Il fenomeno migratorio è un agente fondamentale di questo processo di trasformazione. E’ mutata la composizione della popolazione che abita il nostro Paese: altre donne, altri uomini, provenienti da diversi territori del nostro pianeta hanno iniziato a farvi parte. Ciascuno apportandovi del proprio: la lingua, i costumi, le abitudini…

Una trasformazione , indubbiamente, epocale che nel mentre lascia chiaramente intravedere lo scenario tradizionale che la storia abbandona al suo destino, fatica , d’altra parte, a disegnare il quadro di quel che sarà un futuro così prossimo da ambire a indossare i panni del domani, se non, tutt’al più, del dopodomani.

In quest’ ottica, il problema dell’incontro con lo straniero o , più veridicamente, dell’incontro tra stranieri assume una rilevanza fondamentale che spesso , ahimè, stride con il ricorso a risposte appena abbozzate o , peggio ancora, a ipotetiche e fantasiose soluzioni relegate nel cassetto delle “cose da fare”. Il tema da affrontare è tanto urgente e necessario, quanto , ovviamente, complesso. Poco o nulla disponibile a venire ulteriormente dilazionato.

Basta , del resto, richiamarlo nella sua inevitabile immediatezza, perché diventi suscettibile di generare domande che aprono su orizzonti dei quali pare difficile circoscrivere il limite. Chi è , insomma, lo straniero?

O, più precisamente ancora, cosa induce un essere umano a percepire un suo simile come un estraneo, come un individuo radicalmente diverso da sé ? Sono spesso le immagini a fornire quest’impressione : il colore della pelle, i tratti del volto, l’abbigliamento… A volte basta veramente poco, un colpo d’occhio è più che sufficiente. E’ attraverso l’emergere impulsivo di quest’immediatezza che subito trova espressione l’insieme di quei pregiudizi che spesso finiscono per diventare spessi come muri, pesanti come macigni. Paura, inibizione o, al contrario, incontenibili e volubili slanci empatici sono gli stati d’animo più frequenti che si associano a questa modalità d’approccio o , forse, più realisticamente, d’evitamento dell’incontro con l’altro.


Sull’identità

E’ tuttavia alquanto sbrigativo e , al fondo, semplicistico ridurre il problema della relazione con lo straniero o, insistiamo, tra individui reciprocamente stranieri gli uni con gli altri, all’esistenza di pregiudizi. Dietro un’origine si nasconde una storia, prende forma il ramificarsi di un’identità. In una parola, una traccia dell’essere che permette di distinguere un individuo, un gruppo, una cultura da un altro, apparentemente uguale. L’identità custodisce il senso di una differenza, disegna il confine di una separazione. Necessaria ad assicurare l’unicità di qualsiasi presenza o attività umana. Ciò non toglie che la stessa, a sua volta, non sia l’esito di un processo complesso, di cui è il frutto e la memoria. Si pensi, per fare un esempio, a come si costruisce l’identità soggettiva di un bambino nel suo crescere, nel suo entrare nel mondo. Essa è il precipitato del legame tra i suoi genitori, nonché dello scambio fecondo tra questi ultimi e il minore stesso. Senza dimenticare che i genitori sono testimoni, più o meno involontari, più o meno consapevoli, delle vicende di chi li ha preceduti e così via.

L’identità è la punta di un iceberg che annoda una serie di fili che rinviano a una trama collettiva che non è sempre agevole dipanare. La famiglia e, per l’appunto, la cultura sono parte costitutiva di questa rete. Entrambe, seppur in maniera diversa, lavorano a caratterizzarla, contribuendo così a circoscrivere gli elementi chiamati a fondare l’identità del soggetto. Operazione tanto indispensabile quanto non priva di ambiguità e rischi nel suo concreto e fattivo dispiegarsi. La posta in gioco che ne deriva è , infatti, assolutamente decisiva per la vita del singolo individuo e, in definitiva, per la sopravvivenza vitale del suo contesto d’appartenenza.

Un essere umano non può non possedere un’identità e , in un certa misura , non ambire ad essa. Va da sé, per altro, che risulta altrettanto veridica l’opzione opposta: la sua singolarità pone il problema della sua identità in una relazione che è, insieme, di discontinuità e di continuità con l’eredità delle rappresentazioni simboliche che ha ricevuto, ora dalla famiglia, ora dalla sua cultura. L’adesione passiva alle identificazioni già precostituite mortifica la soggettività individuale e la possibilità che il singolo apporti qualcosa di proprio a quel che ha avuto in dono, trasformando e rinnovando questo patrimonio. Allo stesso modo, l’esasperazione di una rottura, poco o nulla mediata in termini dialettici, con il contesto originario può aprire la strada a percorsi di devianza, nei quali è la stessa particolarità individuale ad annullarsi, paradossalmente rapita e alienata nell’illusione che sia invece quella condotta a farla emergere.


Pensare l’incontro tra culture

Come riuscire a ipotizzare, oggi , il dispiegarsi di queste dinamiche sia a livello individuale che collettivo?

Scorciatoie o rapide soluzioni non esistono. La società occidentale attuale attraversa una crisi di cui è impossibile profetizzare l’esito. I suoi riflessi inevitabilmente si proiettano su quel che forgia l’identità. Si pensi, in questo caso, alla costante erosione che, negli ultimi decenni, ha subito il riferimento all’ideale.

A ben vedere, nella sua declinazione sociale quantomeno , il rimando all’identità tende a disporsi tra una versione liquida, interamente catturata nella sospetta euforia del consumismo, e una solida, ingessata, del tutto irrigidita nel voler indossare la maschera sociale del successo e dell’omologazione a uno schema, a un modello stereotipato.

E’ , d’altronde, a fronte di questo vuoto, figlio del nichilismo postmoderno, che per contrapposizione vengono mitizzate altre culture che paiono più resistenti, meno sensibili a una deriva che, per altro, sotterraneamente, le contagia. L’equivoco che spesso ne risulta è un’esaltazione acritica della cultura in quanto tale, come un blocco unico, compatto e autolegittimantesi , in grado di obliterare quella faglia tra individuo e cultura medesima , indispensabile all’esistenza non parassitaria di entrambi. Così facendo si corre, infatti, il pericolo di passare da una realtà dominata dal depotenziamento dell’ideale a un’altra che ne fa un feticcio monolitico a cui non è possibile contrapporre un desiderio alcuno.

Occorre qui, a questo proposito, rammentare il discutibile rapporto che la cultura intrattiene con il singolo quando sposa con eccessivo entusiasmo la problematica narcisistica. Difendere la propria cultura diventa allora proteggere qualcosa di sé e viceversa, senza che le due componenti appaiano ben distinte e articolate tra di loro. Si tratta di una modalità, in genere protetta dall’omertà familiare e dalla complicità dell’ambiente, che tende a mettere in scacco l’accesso alla verità nel suo potenziale istituirsi. La verità abita il dubbio, l’interrogazione, la curiosità e l’imprescindibile esigenza di dare un nome agli avvenimenti che si succedono nella vita delle persone. In quanto tale, la verità non è un dato di fatto, ma la condizione perché uno sviluppo discorsivo sia possibile, in un individuo, al suo interno, e all’esterno, tra lui e gli altri. Ciò significa che lo spazio per la sua ricerca sia effettivamente disponibile, pensabile prima ancora che dicibile. In questo senso, la verità non risponde unicamente della sua corrispondenza , oggettiva o meno, con dei fatti conclamati. Per la psicoanalisi, teoria ed etica che orientano la nostra prassi, la verità attiene il cuore segreto dell’essere del soggetto, si insinua nelle pieghe dei suoi sintomi, dei suoi sogni, dei suoi lapsus o delle sue emozioni. Si sottrae dunque alla dicotomia “scientifica” del vero o falso, poiché non può venir avvalorata da alcun principio esterno di validazione, ma dalle enunciazioni che appartengono e , spesso sfuggono, a chi parla.

Da qui, in conclusione, la prospettiva che un discorso psicoanalitico è tenuto a promuovere all’interno di un ambito che, per semplificazione, potremmo definire come interculturale. Se non è immaginabile supporre un uomo universale , al di fuori di qualsiasi cultura, o assimilabile a una sola cultura egemone è allora compito del clinico indagare e riposizionare il rapporto tra cultura e individuo, spingendosi oltre i vaghi contorni abbozzati dall’etnopsichiatria. L’inconscio è il terreno condiviso, il collante tenace dove si misura l’intreccio e la dialettica tra la prima e il secondo, così come il canovaccio che stabilisce la scena sulla quale gli stranieri si incontrano, uno per uno, ora tentando di comunicare ora contrapponendosi frontalmente. Compito della psicoanalisi è, crediamo, permettere a ogni essere umano, indipendentemente dalla sua cultura d’appartenenza o dal colore della sua pelle, dalla sua età o dal suo sesso, di reperire una parola che lo aiuti a recuperare la differenza che caratterizza l’unicità della sua esistenza, a soggettivare la sua storia, quel non nato che è già lì, nel suo inconscio per l’appunto, e che attende di esser risvegliato, nel rispetto di sé stesso e degli altri. Perché la vita sia possibile, proprio a partire da quell’ essere stranieri che ci accomuna.

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