Aldo Baborsky, 88 anni, racconta l’esodo della sua famiglia verso il confine italiano e l’arrivo a Lecco
La cerimonia in ‘Riva Martiri delle Foibe’ in ricordo dei tragici avvenimenti del Dopoguerra
LECCO –”No dimentichemo. E’ la frase che diciamo in istriano e lo diciamo con forza, perché ciò che è accaduto non venga dimenticato e rimanga nel cuore”.
E’ Adriano Javarian Savarin, delegato provinciale dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, ad aprire le celebrazioni per il Giorno del Ricordo che il 10 febbraio di ogni anno tiene alta la memoria dell’esodo della popolazione istriana, fiumana e dalmata verso l’Italia, per sfuggire ai massacri del regime comunista Jugoslavo.
Di fronte all’insegna ‘Riva Martiri delle Foibe’, sul lungolago, si è svolta la cerimonia a Lecco alla presenza delle autorità e delle forze dell’ordine. Nessun discorso da parte dei rappresentanti istituzionali politici, vista la concomitanza con le elezioni regionali di domenica.
A loro e ai cittadini presenti, si è rivolto il racconto di Aldo Baborsky, oggi 88enne ed ex impiegato comunale, testimone diretto di quei tragici avvenimenti:
“Ricordo bene il giorno in cui, con la mia famiglia, abbiamo passato il ‘muro’ tra Oriente e Occidente: era il 16 agosto 1948. Avevo 13 anni e più che per il dolore dei miei genitori di aver lasciato la nostra casa e le nostre vite, ero preoccupato in quei momenti per la mia collezione di francobolli, preziosi perché risalivano al periodo di D’Annunzio, che aveva governato Fiume tra il 1919 e il 1920 e ne avevano il timbro sull’effige originale dell’imperatore Francesco Giuseppe. Mia madre mi disse di ridurla in piccole parti e di nasconderla, la misi nella giacchetta che avevo indosso”.
“Novanta chilometri separano Fiume da Trieste, ci vollero dodici ore di treno per arrivarci. Partimmo a mezzanotte, ci arrivammo a mezzogiorno – Baborsky prosegue il suo ricordo – A San Pietro del Carso fummo fermati per i controlli, ci spogliarono addirittura, le valige buttate qua e la. Un jugoslavo mi puntò il fucile sulla giacca e mi chiede cosa avessi lì. Dissi: ‘Non ho nulla compagno’. Lui insistette. Non aveva il volto cattivo e capii che non mi avrebbe sparato, allora consegnai la mia collezione. Ancora mi brucia il pensiero di quel furto”.
Superato il confine italiano “iniziò lo spostamento tra i campi profughi, prima a Udine poi fummo smistati con altri a Villa Reale di Monza, non certo nei locali della reggia ma nelle scuderie, poi a Lecco. Ricordo il mio arrivo, ho pensato non vi fosse un luogo più bello di questo. Sono rimasto subito affascinato dal lago e dalle montagne. Ricordo l’abbraccio dei miei compagni di scuola, per me sono stati come fratelli”.
Lecco ha rappresentato un nuovo inizio per la famiglia Baborsky, la salvezza da quei terribili accadimenti che non possono essere dimenticati.