BESSEL CANDY Tore Rossi della Fiom Cgil
su Bessel Candy
Sono francamente sconcertato dalla decisione della Candy – Bessel di delocalizzare in Cina, che è un caso, ma offre gli spunti per ragionamenti un po’ più ampi. E’ qualche giorno che ci penso, e da molto di più che mi ribolle il sangue. Perché queste ingiustizie? Perché accettare scelte di ricchi che vogliono diventare sempre più ricchi, a danno di centinaia e centinaia di donne e di uomini che con il loro sudore hanno diritto di dare dignità alla propria esistenza? Perché? Perché accettare l’esercizio del ricatto più bieco, quello che ti toglie la terra da sotto i piedi, quello che ti impedisce di progettare, di sognare, di pensare ad una tua famiglia, di goderti sanamente il frutto del tuo impegno, che ti blocca i neuroni, che ti segna tutta la vita e che segna quella di coloro che ti stanno vicino?
Ma che mondo è mai questo? Un mondo in cui viene accettato senza particolari reazioni che la ricchezza sia sempre più concentrata e sempre più nelle mani di pochi, di pochissimi. Ogni sette secondi muore nel mondo un bambino per mancanza di acqua potabile, quasi un miliardo di persone soffrono di malnutrizione… Eppure sembra normale.
Che mondo è mai il nostro, che mi ha portato a ritenere ineludibile tutto questo? Che mi porta a dire: pensa al tuo, e se toccherà a te, si vedrà… Perché sono così egoista? Perché me ne frego di quello che accade di fianco a me? Perché non sento il bisogno di tendere la mano? Perché non sento il dolore dell’altro come il mio, il suo sopruso subìto come il mio, la sua lotta la mia, la sua dignità calpestata la mia, la sua solitudine la mia?
Ci sono tantissime altre domande che mi salgono alla gola, sono inutili? Per chi ci crede e chi Lo segue, o si sforza di farlo, è Giustizia questa? E’ Fratellanza questa? E’ Solidarietà questa? E’ condivisione di Umanità questa? Possiamo fregarcene, possiamo chiudere gli occhi, possiamo far finta di niente? Possiamo digerire che le voci che si alzano a difesa siano sempre le solite, sempre più denigrate e isolate? Possiamo digerire che la Politica non regoli e, al di là di posizioni individuali rare, sia concentrata su soluzioni autoreferenziali? Che sia così distante dai problemi concreti delle persone? Che di fatto abbia rinunciato a esercitare il diritto-dovere di individuare soluzioni di breve, medio, lungo, lunghissimo periodo, nell’interesse collettivo?
E che la classe imprenditoriale si sia quantomeno progressivamente raffreddata nell’esercitare il suo compito più nobile, l’impegno sociale, a favore del territorio in cui opera? A interpretare il proprio impegno come alta dimensione del ruolo individuale dell’imprenditore uomo, o donna naturalmente? Cioè uomo che mette a servizio della propria collettività i talenti di cui è dotato, la sua creatività, il suo ingegno, la sua capacità, a volte anche la sua fortuna, per dare la possibilità a molti altri di vivere una vita dignitosa e gratificante. Uomo che ha tutti i diritti anche di vedere giustamente remunerato il proprio impegno, ma senza che questo diventi lo scopo ultimo e, peggio, unico. E soprattutto senza che questo avvenga sulla pelle degli altri, sulla compressione dei loro diritti, sul ridimensionamento della loro sfera affettiva e relazionale. Insomma, uomo che sceglie una strada di condivisione collettiva, che percorre una strada insieme agli altri, con ruoli differenti ma con la stessa etica, la stessa passione, gli stessi valori, gli stessi obiettivi ultimi, di rendere questo mondo un po’ migliore, in cui ciascuno possa avere diritto ad una vita bella, piena, ciascuno le stesse opportunità e le stesse possibilità di esprimersi, che svolge il suo ruolo con dignità né superiore né inferiore ai propri operai, diverso sì, che vede nella creazione e nella crescita della sua creatura il modo di incidere e di realizzarsi individualmente umanamente. E che è disposto già dal minuto dopo a considerare la sua creatura creatura di tutti, sua, degli operai, degli impiegati, del territorio, del tessuto sociale in cui opera.
Altrimenti è fallimento, non economico forse, ma fallimento valoriale certamente, che è molto di più. Altrimenti è pugno di mosche, magari portafoglio gonfio, belle auto, reverenze e tappeti rossi, ma disastro umano, abdicazione dalle origini della propria dimensione personale.
E allora, andare in Cina, perché? E lasciare un disastro a Santa Maria Hoè, perché? E andarsene senza una necessità dettata da una congiuntura negativa, avendo nel 2010 chiuso un bilancio con un forte miglioramento della reddititvità operativa, perché? E accollare allo Stato Italiano, cioè a noi, il costo economico – perché quello sociale purtroppo sappiamo già su chi ricadrà… -, perché? E investire in Cina olre 30 milioni di €, perché? Forse perché lì, purtroppo, i diritti non vengono importati? Perché attenzione all’ambiente e alla sicurezza sono ancora allo stato embrionale? O perché il costo del lavoro è considerevolmente più basso? E dunque perché gli investimenti garantiscono un ritorno infinitamente superiore? La globalizzazione ci ha posto una grande scommessa, e forse avremmo potuto vincerla, esportare valori, conquiste, diritti, la liberazione dalla schiavitù, dallo sfruttamento, invece no, ci troviamo noi a decrescere, a competere, a comprimere per resistere.
E lasciare un’area in balia delle speculazioni immobiliari, perché? E lasciare 204 persone nelle braccia di un destino che toglie il respiro, perché? 204 teste, 204 cuori, 408 braccia e 408 gambe, il doppio, il triplo, il quadruplo se pensiamo alle loro famiglie, chissà quanti all’indotto, ognuno un volto, una sensibilità, un suo mondo, dei bambini, dei vecchi, centinaia di persone che hanno riposto aspettative su un impegno lavorativo e che hanno sperato di costruirsi onestamente un’esistenza, contribuendo a fare sempre più ricca l’azienda…
Ma che mondo è, che progresso è quello che elimina i deboli, che schiaccia chi fa il suo dovere, che premia chi fa il furbo, che arricchisce chi sfrutta, che mondo è?
Che vita è, quella che ti costringe a concentrare le energie per sopravvivere, che ti fa abbandonare i desideri, le speranze, il domani?
Che responsabilità abbiamo collettivamente? Che responsabilità ho io?
Tore Rossi
Lecco, 9 giugno 2011