Dopo 43 anni di lavoro in ospedale, arriva il momento della pensione per Fabrizio Mosca
Coordinatore infermieristico, ha contribuito all’evoluzione della professione nell’ambito del soccorso.
LECCO – Oggi, domenica, è il suo ultimo turno a bordo dell’automedica del 118, mezzo sul quale per tanti anni ha operato sul territorio, portando soccorso e assistenza a quanti ne avevano bisogno: caposaldo del servizio di 118 nel lecchese e figura di riferimento per gli infermieri dell’azienda ospedaliera di Lecco, Fabrizio Mosca, coordinatore infermieristico dell’Agenzia regionale di Emergenza e Urgenza (Areu), da lunedì sarà in pensione.
Coincidenza curiosa vuole che oggi con lui condivida l’auto il dott. Sergio Colombo, anch’esso al suo ultimo giorno di lavoro prima del pensionamento. Un pensionamento che per Fabrizio Mosca – classe 1963, originario del rione di Castello e residente ad Acquate – arriva dopo 43 anni di servizio, tutti in ospedale a Lecco.
Ne prende il testimone Daniele Mattana, cresciuto nell’ambito del soccorso a cui fa ritorno dopo l’incarico di responsabile d’area del reparto di Chirurgia e poi del dipartimento di Salute Mentale.
Fabrizio Mosca lascia dopo quasi mezzo secolo di servizio trascorso sia in prima linea, accanto ai pazienti, che dietro le quinte della macchina organizzativa della sanità locale nella gestione del personale. Anni di emozioni e ricordi ma anche di evoluzione per la figura dell’infermiere e di innovazioni a cui lo stesso Fabrizio Mosca ha collaborato alla realizzazione. Ce ne parla nell’intervista che ci ha rilasciato qualche giorno fa.
Quando inizia la sua esperienza nell’ambito della sanità?
“Subito dopo la scuola per infermiere: era il 1984 quando ho cominciato in chirurgia all’ospedale di Lecco, nel 1994 divento caposala, come veniva definita allora quella figura. Tra il 2000 e il 2004 vengo chiamato per un incarico nell’ufficio infermieristico della Direzione sanitaria dove, insieme alla responsabile, coordinavo tutto il personale non medico dell’ospedale di Lecco, parliamo di circa un migliaio di persone. Nel 2004 mi è stata offerta la possibilità di fare il coordinatore infermieristico per l’area del 118, una realtà che fino a quel momento mi era sconosciuta. Mi sono fatto le ossa all’inizio ma, grazie anche alla collaborazione dei colleghi, ho preso padronanza di un ambito che mi è da subito piaciuto”.
In questo tempo, come è cambiata la figura dell’infermiere?
“Tantissimo. Quando ho iniziato all’epoca si accedeva alla formazione da infermiere dopo un biennio di scuola superiore e si concludeva con un tirocinio completo in ospedale. A quei tempi esisteva ancora il mansionario dell’infermiere che ne inquadrava le funzioni in specifiche mansioni. Oggi, con la formazione universitaria, l’infermiere è un professionista con una propria sfera di azione in cui riesce ad operare molto meglio di prima”.
Cosa le ha lasciato questo lavoro in tanti anni di sevizio?
“Quella dell’infermiere è una professione di aiuto alle persone. Non era il lavoro che immaginavo di fare da ‘grande’, ci sono arrivato con un percorso personale ma non mi sono mai pentito di questa scelta. Non ricordo di essere andato a lavoro un giorno senza averne voglia. Oltre ad essere di aiuto ai pazienti, ho avuto la possibilità, come coordinatore, di essere di servizio anche ai colleghi e credo negli anni di essere riuscito a creare un bel gruppo. Le performance dei nostri infermieri lo possono dimostrare”.
Come è cambiato invece il mondo del soccorso?
“C’è stata un’importante evoluzione formativa e culturale che ha interessato anche la parte non sanitaria, ovvero quella delle associazioni volontarie sul territorio che fanno un lavoro veramente encomiabile, non mi stancherò mai di ringraziarli: i corsi svolti oggi prevedono l’ottenimento della certificazione dopo 120 ore di formazione, con l’acquisizione di nozioni importanti. Contemporaneamente è cambiata la figura infermieristica nell’ambito del soccorso: in passato l’infermiere usciva solo accompagnando il medico sull’automedica. nel 2008 invece siamo stati i primi, insieme ad altre due province, a sperimentare l’autoinfermieristica e con l’istituzione di Areu, di cui ho assistito alla nascita (la prima sede è stata proprio qui a Lecco ed è rimasta operativa fino al trasferimento a Milano) questa innovazione è diventata regionale. Per un paio di anni sono stato istruttore di questi infermieri che, per salire su mezzo di soccorso avanzato, devono avere una professionalità non indifferente. Sul nostro territorio ormai da diverso tempo disponiamo di autoinfermieristiche a Bellano, Merate, Molteno. Quest’ultima, durante l’emegenza Covid, ha prestato servizio in supporto della provincia di Bergamo”.
Come avete vissuto il periodo della pandemia?
“Il Covid ha rappresentato uno sconvolgimento della nostra attività. Ci siamo dovuti rimboccare le maniche, sia dal punto di vista professionale che emotivo. Il personale ha vissuto costantemente la paura di essere infettato e di poter trasmettere la malattia in famiglia. Diversi colleghi hanno deciso di isolarsi in casa rispetto ai propri familiari proprio per evitare di contagiarli. A Lecco eravamo avvantaggiati perché, ai tempi dell’allerta per il virus Ebola, era stata effettuata una formazione specifica sulla vestizione dei dispositivi di protezione personale, le tute che per un lungo periodo sono state la nostra divisa sul territorio. Abbiamo fatto in modo che queste protezioni non mancassero mai a tutto il nostro personale, infermieri e autisti, affinché potessero operare in sicurezza. Ce l’abbiamo fatta e la dimostrazione è che non ci sono stati casi di contagio tra i nostri infermieri, tranne che per uno a causa di un probabile contatto fuori servizio”.
Quali sono i momenti che ricorda con più emozione?
“Aver dato avvio all’esperienza dell’infermiere sui mezzi di soccorso, facendo parte di questo percorso, è stata una grande soddisfazione. Per quanto riguarda gli interventi, invece, quando il soccorso riguarda dei bambini, ti senti molto coinvolto dal punto di vista emotivo, perché hanno un’evoluzione molto rapida e devi essere sempre pronto a considerare ogni evenienza. Quando il quadro evolve in maniera positiva, l’emozione è forte. Momenti brutti, invece, tanti. Soprattutto quando sono i giovani a perdere la vita, spesso per sciocchezze come la cintura di sicurezza non indossata o il casco non allacciato, oppure nei casi di suicidio, ogni volta è un colpo al cuore. Nei mie ricordi c’è anche il terremoto dell’Aquila, dove sono stato insieme ad altri operatori per aiutare”.
Che rapporto ha sviluppato con la morte?
“Avendone assistite tante, quando una morte è evitabile allora crea tanta abbia. Ogni volta, qualcosa ti porti sempre con te ma devi riuscire a staccartene in breve tempo, altrimenti rischi di non operare in maniera serena. Nei casi più traumatici è previsto un servizio di supporto psicologico al personale ed è necessario agire nell’immediato altrimenti è più difficile, poi, venirne fuori”.
Vuole ringraziare qualcuno in particolare?
“Sicuramente tutti i colleghi, gli autisti e i medici con cui collaboriamo quotidianamente, Un grazie particolare va alla mia famiglia che ha sopportato le mie assenze in questi anni di servizio. Da parte mia ho sempre cercato di non portare a casa il lavoro e di varcare la porta d’ingresso sempre con il sorriso, anche nelle giornate più difficili”.
E ora che inizia la pensione, cosa farà?
“Non so, non ho ancora deciso niente. La prossima settimana sarò comunque in Areu per alcune attività con cui collaboro legate alla formazione. Vedrò, nei limiti del possibile, se potrò dare ancora il mio personale contributo ad un mestiere che tanto ha saputo darmi”.