Dentro, fuori le mura. Una considerazione su carcere e rieducazione

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Carcere e società

Mi ha sempre colpito passare vicino ad un carcere. L’inaccessibilità è ciò che salta all’occhio: alte mura di cinta, porte corazzate, agenti di guardia sui camminamenti, vetri anti proiettili, sbarre alle finestre. Pur trovandosi spesso all’interno delle città, io ci passavo vicino tutti i giorni per andare a scuola, il carcere è come se non lo fosse in quanto chiuso. Pur essendo un luogo necessario alla città, la sua impraticabilità lo rende lontano al punto da spingere a dimenticarsene.

E’ la cronaca, sempre più frequente in questi anni, che porta alla ribalta le carceri in termini di sovraffollamento e degrado, ma al di là queste preoccupazioni di ordine gestionale, nessuno ne parla, non è interessante.

Eppure bisogna riconoscere che il carcere è un luogo legato con un doppio filo alla società.

Il vivere civile infatti, in qualunque accezione lo si intenda, presuppone l’esistenza di un sistema di regole, più o meno codificate, che disciplini il comportamento dei membri di un determinato gruppo. La necessità di regolare le condotte dei singoli trova giustificazione nell’intento, connaturato all’esistenza stessa della civiltà, di preservare e promuovere la vita. Il singolo individuo, a fronte di una perdita in termini di libertà personale, riceve in cambio un ingente guadagno in termini, ad esempio, di sicurezza, opportunità, giustizia.

Vale la pena fare un’osservazione forse banale ma comunque utile per capire i termini della questione: stabilire una legge significa porre un criterio di separazione, chiaramente tra ciò che si può e ciò che non si può, ma anche, e conseguentemente in quanto inerente il comportamento umano, tra chi rispetta quella norma e chi non la rispetta. La distinzione che ne consegue, appunto tra chi sta nella legge e chi ne è fuori, introduce necessariamente ad un’altra spinosa questione: quella della punizione.

E’ verosimile pensare che sin dagli albori della civiltà si sia posto il problema di come comportarsi di fronte a chi trasgrediva le leggi, in quanto la pena è connaturata, necessaria alla legge al punto che una non può esistere senza l’altra.

Come detto sopra la legge introduce un criterio di separazione. Questa dizione mi sembra particolarmente appropriata in quanto la separazione è il fondamento stesso dell’idea di punizione. Il segno più tangibile di questa assonanza, tra la separazione introdotta dalla legge e l’applicazione dello stesso principio nell’ambito delle sanzioni, è il carcere. Esso è infatti, primariamente, un luogo in cui chi non ha rispettato la legge è separato dagli altri.

Detenzione e rieducazione

Questa questione della separazione dei colpevoli, in epoca moderna si articola con un passaggio storico-culturale importante. Accanto all’aspetto punitivo costituito dalla privazione della libertà, che ha lo scopo di far espiare la colpa al condannato, viene posta la necessità che lo stesso venga rieducato in prospettiva del suo reinserimento nella società, così come stabilito dll’articolo 27 della Costituzione Italiana. A farsi carico della rieducazione dei detenuti è il sistema penitenziario, i carceri in particolare.

La logica che sta alla base di questa organizzazione è lineare, al fuori legge del reato corrisponde uno stare dentro il carcere. La rieducazione, parte integrante della pena dovrebbe avere lo scopo di elevare il soggetto colpevole da una condizione di delinquenza e di marginalità ad una di miglior inserimento nel contesto civile. Questo l’effetto dell’intervento riabilitativo della carcerazione.

In realtà l’esperienza e la statistica indicano che il processo non si realizza, spesso nemmeno quando sembrano esserci le migliori condizioni e i massimi sforzi da parte di istituzioni e servizi. Si assiste piuttosto ad un continuo movimento di entrata e di uscita di galera da parte della maggior parte dei detenuti.

Questo fenomeno, nominato dagli operatori del settore “porta girevole”, si contrappone all’idea espressa nella Costituzione e alla mission stessa degli istituti di detenzione che vorrebbero l’affrancamento dalla delinquenza quale effetto della pena. Pur non negando le molte storture e degenerazioni del sistema carcerario, degli specifici istituti e dei singoli operatori, che rendono il carcere meno efficace di quanto potrebbe essere, crediamo che il processo di rieducazione incontri comunque un proprio limite, un punto d’impossibile che una prospettiva di tipo clinico può permettere di cogliere meglio.

Questa prospettiva prende atto della spinta a ripetere che porta un detenuto a tornare incessantemente in carcere e mette al centro del discorso il soggetto specifico. La valutazione d’inefficacia, che spesso si associa al regime detentivo quale strumento di rieducazione, va quindi in parte relativizzata. Stare nel legame sociale implica accettare una serie di norme che regolano lo scambio e la convivenza tra individui; ciascuno deve trovare un modo vivibile per starci dentro in questo legame con l’altro; legge e legame si annodano e infrangere la legge significa minare alla radice la possibilità dello stare in un certo tipo di vincolo con l’altro.

Evidentemente non mi sto riferendo qui alle piccole trasgressioni che possono accompagnare la realizzazione del desiderio del soggetto, mai del tutto riassorbibile nella regola. Penso piuttosto a quei detenuti che non hanno mai trovato un accomodamento possibile rispetto alla legge, che hanno condotto vite sempre ai margini della legalità o sempre al di là di essa, senza riuscire mai ad integrare nella propria condotta il senso del limite.

Quelli che si ascoltano sono talvolta dei racconti di isolate infrazioni altamente rischiose anche per la sopravvivenza, commesse quasi senza pensarci un istante; altre volte si tratta di un perpetuo stato di violazione che prima o poi incontra la condanna; altre ancora si osserva la ripetizione incessante di reato/condanna/liberazione/reato che sembra non lasciare traccia e non produrre mai un’uscita dalla serie o quantomeno una serie diversa.

Fatte quindi le dovute eccezioni per gli errori giudiziari, credo si possa porre in rapporto che la questione della carcerazione con la difficoltà o con l’impossibilità del soggetto a stare nel legame con l’altro e nelle norme che lo regolano. Il punto è che quanto più il soggetto ne sta fuori, tanto più l’altro si fa sentire per rimetterlo dentro; quanto più il soggetto sta fuori dalla legge, tanto più la legge interviene per riportare il soggetto nei suoi limiti.

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