BRUXELLES – Il terremoto che ha colpito Parigi venerdì 13 novembre è arrivato a scuotere anche Bruxelles: la città belga si è scoperta essere covo dell’estremismo islamico e sopratutto di Salah Abdeslam, il ricercato numero per le stragi di Parigi, avvistato in città. L’allerta terrorismo è ai massimi livelli e la capitale è letteralmente blindata: arresti e perquisizioni, coprifuoco nelle zone del centro e annullamento di tutti i grandi eventi pubblici in programma, tra i quali il campionato di calcio.
Proprio in questi concitati giorni, tre giovani studenti lecchesi si sono ritrovati a Bruxelles per seguire un progetto di studio e hanno vissuto sulla loro pelle i lunghi momenti di agitazione e paura in città.
Paola Tavola, 24enne laureanda in Relazioni Internazionali e Studi Europei, Marzio Invernizzi, coetaneo laureando in Ingegneria Chimica e Anna Melesi, 23enne laureanda in Ingegneria Biomedica, hanno raccolto le loro riflessioni nel racconto dei giorni di tensione passati a Bruxelles, sottolineando come abbiano continuato “a vivere prigionieri di un sentimento che è un insieme di ansia e di rabbia” seppur vivendo pieni delle loro “giovani speranze” per esortare l’Europa ad “imparare dai propri errori”.
Ecco il racconto dei tre giovani studenti lecchesi:
“Qualche giorno fa un giornale francese ha definito Bruxelles un ‘cimitero di viventi’. A partire da una settimana, Bruxelles ha rivelato al mondo la sua doppia identità. Capitale delle Istituzioni, dei funzionari, dei diplomatici e motore dello sviluppo europeo, ma anche rifugio e domicilio di alcune delle menti e delle braccia degli attentati di Parigi.
Che cosa è Bruxelles ?
Bruxelles non è Parigi, divisa in quartieri e compartimenti separati. Bruxelles è un melting pot e questo si è sempre saputo. Arabi, Europei, Africani e gente da tutto il mondo condividono le stesse strade, gli stessi locali, gli stessi posti, le stesse routine. Routine che da sabato mattina sono state pienamente interrotte dall’innalzamento del livello di allerta terrorismo a 4 su 4.
I giornali italiani titolano ‘Stato di emergenza, metro e scuole chiusi’. I telefoni squillano in continuazione, è normale : genitori e amici si preoccupano. Eppure noi in questi giorni abbiamo vissuto. Militari e polizia presidiano la città. La vita sembra interrotta. I negozi di chaussée d’Ixelles e di Rue Neuve che colorano le classiche giornate grigie di persone, voci, lingue, ed etnie sono rimasti chiusi. Non solo il cielo è stato grigio in questo weekend. L’intera città lo è stata. Eppure noi in questi giorni abbiamo vissuto.
Abbiamo vissuto sì. Non immuni da difficoltà, ansie e complicazioni, ma abbiamo vissuto. I treni non hanno interrotto il loro normale corso, quindi non è stato difficile raggiungere Louvain, cittadina universitaria a nord-est di Bruxelles, nella parte fiamminga del paese. L’ambiente è decisamente più sereno. Qui la quotidianità sembra non essere stata stravolta dagli allarmismi, anche se i livelli di allerta sono alti. La giornata passa veloce e cadono persino i primi fiocchi di neve.
Si riparte da Leuven nel tardo pomeriggio. Un altro viaggio in treno non troppo lungo ma che ci obbliga ad una serie di cambi. Abbiamo modo di osservare varie zone della città : la stazione di Bruxelles-Nord, Bruxelles-Luxembourg e Ottignies. C’è tensione nell’aria e si percepisce facilmente. Soprattutto nelle stazioni dove la fretta e la confusione regnano abitualmente sovrane. Ora tutto sembra così calmo rispetto alla normale frenesia e la gente si scambia sguardi profondi e attenti. Sguardi carichi di paura. Sguardi talvolta anche carichi di pregiudizio. Eppure la gente viaggia e vive.
La destinazione è Louvain-la-neuve, un’altra cittadina universitaria, ma questa volta a sud di Bruxelles, nella regione francofona del paese. Le entrate del centro commerciale sono sbarrate dagli agenti della sicurezza. Si entra in fila indiana, uno dopo l’altro. Bisogna aprire la giacca e mostrare ciò che non si nasconde sotto. Borse e valigie vengono controllate una ad una.
La domenica ci riporta nel cuore della capitale. Le casette in legno pronte per l’apertura dei mercatini di Natale sono già tutte montate, ma sono vuote. Vuote di luci, vuote di musica, venditori e turisti curiosi. Non resta altro da fare se non rinchiudersi in casa nell’attesa della conferenza stampa del Primo Ministro, Charles Michel. Il consiglio nazionale di sicurezza ha deciso di prolungare lo stato di allerta anche a domani e intanto nuove operazioni vengono portate avanti e questa volta non a Moleenbek, ma nel cuore del centro storico. Eppure, dalle nostre case, noi continuiamo a vivere.
Continuiamo a vivere prigionieri di un sentimento che è un insieme di ansia e di rabbia. Di ansia perché siamo preoccupati per quando domani dovremo uscire di casa per andare in ufficio o a fare la spesa. Di rabbia per il continuo bombardamento mediatico, ansiogeno, vuoto e ripetitivo. Di rabbia perché non comprendiamo in che modo siamo potuti arrivare a tutto questo. Di rabbia perché non sapremo quanto ancora potrà durare tutto questo. Di rabbia perché non ci spaventiamo tanto di qualcosa che minaccia la nostra cultura, ma piuttosto ci interroghiamo su un suo possibile fallimento. In fondo tutto questo è nato anche in mezzo a noi e nonostante tutti i nostri tentativi di integrazione.
Forse il nostro modello di civiltà non rappresenta per forza il ‘bene assoluto’, forse qualche colpa ce l’abbiamo avuta anche noi, a ragionare come se fossimo in un mondo bello, ma non in un mondo reale. Una cultura minacciata può, essa stessa, essere stata fonte della minaccia ?
Eppure viviamo. Viviamo pieni delle nostre giovani speranze. Speranze che forse hanno oggi l’opportunità di vedersi concretizzate. Speranze che rivivono quando all’interno dell’organo democratico europeo si sente parlare di Europa. Si sente parlare di una guardia di frontiera europea, di unità antiterrorismo all’interno di Europol, di miglior coordinazione, di inter-connettività e di un progetto di sistema di intelligence europea.
L’Europa, già dagli antichi greci, è nata come l’unicum di fronte all’alterità persiana. Speriamo di essere in grado di fare tesoro della nostra storia, e speriamo di essere in grado di capire e rimediare a i nostri errori. Decidiamoci almeno ad imparare”.