RUBRICA – Torniamo alle argomentazioni della scorsa settimana perché toccano un tema importante nella comprensione degli stati emotivi, e quindi nella costruzione del benessere, di ciascuno di noi. Nell’ultimo intervento abbiamo dato questo tipo di indicazione: qualsiasi sia l’emozione che state attraversando, cercate di arricchirla di particolari, informazioni, note personali, che vi permettano di comprenderla più in profondità. Non accontentatevi di etichette (come “depressione” o, sul versante opposto, “felicità”) che, seppur importanti, danno poche informazioni sull’aspetto “esistenziale” che voi, o la persona di cui state parlando, state attraversando. Qualsiasi condizione emotiva stiate vivendo, sarà tanto più “trasparente” e comprensibile ai vostri occhi quanto più sarà ricca di particolari declinati in prima persona.
Proviamo a chiarire meglio quello che intendiamo dire: l’indicazione che spesso tutti noi riceviamo è quella di valutare le situazioni, gli stati, le condizioni, in modo obiettivo. Ed è proprio questo che facciamo nel cercare di comprendere noi stessi e gli altri. Nel senso comune sono infatti frequentissime espressioni di questa natura: “Ma, obiettivamente, che cosa gli manca?”, “In fondo, cos’ha da lamentarsi?”, “Perché non trova quella serenità che è lì a portata di mano”…, oppure, sul versante opposto, in riferimento a persone che hanno trovato pace in piccole cose, “Come si fa ad essere soddisfatti di così poco!?”, “Perché non cerca di cambiare in meglio la sua situazione?”, o ancora, “Che cosa mai lo realizza in quello che fa!?”.
Tutti sguardi lanciati dall’esterno, obiettivi, che cercano di comprendere sé stessi e le persone a partire dal senso comune, ossia da quello che tutti fanno. E’ una disposizione così naturale, questa, che la mettiamo inavvertitamente in atto anche per la comprensione di noi stessi. Capita spesso, infatti, nei primi colloqui con pazienti, di ascoltare proprio valutazioni di questo tipo: “In fondo che cosa mi manca? Perché sono così depresso?”. Alla luce di una considerazione “oggettiva”, ossia esterna, una situazione o condizione strettamente personale diventa però spesso indecifrabile. Ed infatti lo sforzo che ha senso compiere in vista del benessere (non solo in senso “clinico” di assenza di disagio, ma in senso assoluto come vicinanza al proprio modo d’essere) è proprio quello di calarsi interamente nel proprio, unico, modo di vivere gli eventi della vita.
Proviamo a fare un esempio per rendere più chiaro il discorso che stiamo facendo. Un paziente ventenne che ho avuto in cura per diversi mesi non riusciva a darsi ragione dello stato di profonda agitazione e prostrazione che lo aveva attanagliato. All’apparenza nella vita che stava conducendo non figurava nulla che non andasse: era un ragazzo nel pieno della giovinezza, studente di architettura, con una amorevole ragazza al suo fianco e una famiglia d’origine – a suo modo – attenta. Perché, allora, tanta sofferenza?
La risposta è emersa piano piano, quando è risultato chiaro che questo ragazzo, nella sua storia di vita, è sempre stato immerso in un ambiente “opaco”, chiuso in se stesso e relazionalmente povero, soprattutto di affetti. Aveva sopperito con fatica a tutta questa chiusura e freddezza inventandosi obiettivi sempre più alti e difficili da raggiungere che gli davano “l’adrenalina” – per usare un suo termine – necessaria per stare bene e fare in modo che quella “opacità” si dileguasse. Quando si è trovato nella condizione di non aver più nulla da inseguire (almeno a breve termine) per lui sono cominciati i problemi emotivi.
E’ chiaro che questa “lettura”, che apre la strada a un possibile lavoro sul proprio modo di vivere le situazioni, le relazioni e la partecipazione emotiva agli eventi della vita, può essere fatta solo a partire da sé, dalla propria storia personale. Il che – specifichiamo – non significa che non dobbiamo tener conto di una valutazione “obiettiva” delle cose, ma che se vogliamo capire il vissuto specifico di noi come di chiunque altro dobbiamo attraversare la nostra, o la sua, vita.