Reduce dagli Europei indoor a Istanbul, Padovani ha finalmente indossato la maglia della Nazionale assoluta
Un traguardo che si è fatto attendere, in un viaggio fatto di sacrifici, gioie e momenti difficili. Alla fine però, a prevalere è la gratitudine
LECCO – Correre tutta la vita per raggiungere un sogno, dalle tinte azzurre e a forma di tricolore. Mattia Padovani, mezzofondista lecchese, rincorreva da tempo la possibilità di poter indossare quei colori e portare al petto la bandiera italiana della Nazionale assoluta, arrivando anche a credere di non farcela mai. E invece il corridore dell’Atletica Lecco-Colombo Costruzioni, classe 1995, ha conquistato questo traguardo agli ultimi Europei indoor di Istanbul, un paio di settimane fa. Un sogno che si è fermato alle batterie (è arrivato decimo con 7’54”47, ndr), anche se quello che conta è il viaggio, che è riuscito a renderlo un atleta, ma soprattutto, una persona migliore, al di là di delusioni e momenti difficili.
Partiamo dagli Europei. Finalmente è arrivata la convocazione in Nazionale assoluta: sentivi che questa volta sarebbe stato il tuo momento? Come hai reagito quando te l’hanno comunicato?
“No, non lo immaginavo. Credevo che l’anno scorso fosse quello buono: arrivavo da un periodo positivo, non mi infortunavo e non avevo problemi. Poi, causa Covid, molte manifestazioni sono slittate, tanto che nella stessa stagione c’erano Europei, Giochi del Mediterraneo e Mondiali. Tutte congiunzioni che mi hanno fatto sperare di ottenere la prima convocazione in Nazionale. Poi però ai Giochi, nonostante avessi fatto il tempo minimo per qualificarmi, la Federazione ha scelto altri due ragazzi, per gli Europei ero secondo nel ranking ma sono stato escluso, e per i Mondiali assoluti non avevo raggiunto il minimo. Ero un po’ deluso, speravo di riuscire a partecipare ad almeno una delle tre competizioni. Sono arrivato a pensare di smettere di allenarmi seriamente e dedicarmi all’università, poi mi sono convinto che dovessi provare a ottenere la maglia azzurra agli Europei indoor, dove mi sono sempre sentito a mio agio. Correvo bene, ma a livello di ranking non ero in una posizione favorevole, e dopo i Campionati italiani Assoluti (lo scorso febbraio ad Ancona, dove è arrivato terzo nei 3000 metri, in 8’00”00 ndr) avevo poca fiducia di qualificarmi. Poi alcuni hanno rinunciato, ho fatto parecchi punti in Francia (a Miramas, è arrivato quarto nel World Indoor Tour, 3000 metri con il tempo di 7’54”87, ndr) e sono riuscito a ottenere la convocazione. Non me l’aspettavo, sono stato contentissimo. Prima di ricevere la chiamata, cercavo da un lato di essere contento del percorso fatto, anche se dentro di me sapevo che se non avessi ottenuto la qualificazione mi sarebbe rimasto l’amaro in bocca. Dall’altro invece, una volta ricevuta la positiva notizia, volevo non fosse un punto d’arrivo e cercare di dare il massimo”.
Prima di partire quali aspettative avevi?
“Sapevo che la start list non era a mio favore: tanti avevano un personale migliore del mio, ma non volevo accontentarmi di quello che capitava anche perché, come dicevo, arrivavo da un periodo in cui mi sentivo molto bene, sapevo di poter performare al meglio e giocarmi un posto in finale. Volevo provare a qualificarmi o correre il mio personale, o comunque un tempo vicino”.
Purtroppo non sei riuscito a conquistare la finale. Com’erano le sensazioni in gara? Sentivi che la possibilità di raggiungerla c’era?
“Per tutta la gara ero consapevole di poter ottenere la qualificazione e sperare in un tempo di ripescaggio, nonostante il passaggio ai 2000 metri sia stato lento. Purtroppo mi sono ritrovato primo degli esclusi e mi ha bruciato perché la finale era alla portata, ma non mi posso lamentare di come ho gestito la gara, restando vicino al miglior tempo di sempre e al miglior stagionale. Altri erano favoriti sulla carta, sapevo sarebbe stato difficile. Quando a mente fredda ho riflettuto sulla prestazione, mi sono detto che non posso recriminarmi niente”.
Secondo te, nonostante avessi già mostrato ottime prestazioni, perché la chiamata in Nazionale assoluta si è fatta attendere?
“Ritengo che a incidere maggiormente siano stati i criteri di scelta pochi chiari della Federazione, con cui si stabilisce chi verrà convocato agli eventi. Molte volte, nonostante mi aspettassi di essere chiamato, ciò non accadeva per questo motivo. Un esempio lampante i Giochi del Mediterraneo: nonostante avessi il minimo e uno dei due tempi migliori in Italia, mi hanno preferito altri due ragazzi, che avevano corso più piano di me. Anche le spiegazioni a riguardo sono risultate poco nitide. Evitare di definire parametri permette alla Federazione di selezionare gli atleti in base a propri principi”.
Dopo questa convocazione pensi che ci sarà la possibilità di far diventare la corsa un lavoro a tutti gli effetti?
“Non penso. In Italia poi il sistema del professionismo è complicato: ci sono i gruppi sportivi militari, che vanno di pari passo con i concorsi pubblici. Anche qui, i criteri di chi entra o meno non sono sempre definiti. Negli altri Stati è diverso: i professionisti hanno un brand o un marchio che li sponsorizza in base alle prestazioni eseguite”.
Per te cosa è stato determinante nel compiere il salto di qualità? Un’alimentazione specifica, un cambio di allenamenti, un diverso modo di pensare…
“Non c’è un singolo aspetto determinante, ma un insieme di fattori. Sicuramente l’essere ritornato a casa, a Lecco, ha contribuito a diminuire pressioni e aspettative, dandomi serenità. Prima, stando a Trento, sentivo che avrei dovuto correre di più, con la possibilità di avere un allenatore a seguirmi quotidianamente. Anche tre anni senza infortuni e problemi hanno fatto la loro parte. Inoltre, aver trovato a Lecco un gruppo di atleti con cui allenarsi mi ha riportato indietro a qualche anno fa, quando lo facevo costantemente con altri ragazzi, anche se magari adesso non accade quotidianamente come un tempo. Correre in compagnia è molto diverso rispetto che farlo da soli”.
Sebbene sia stata la tua prima Nazionale, avevi già gareggiato con la maglia azzurra, prima ai Mondiali in Oregon (Eugene) nel 2014 da under 20, e poi agli Europei under 23 nel 2017 in Polonia (Bydgoszcz). Comparando le esperienze, come senti di essere di volta in volta cambiato nell’affrontarle?
“A questi ultimi Europei indoor ero più convinto delle mie capacità e dei miei mezzi, forse perché ho agognato così tanto esserci. Sicuramente, rispetto alle esperienze in azzurro precedenti, sono maturato come atleta e come persona. Nelle altre circostanze, soprattutto da under 20 che era la prima comparsa con la maglia della Nazionale, ha giocato tanto l’emozione. In Nazionale under 23 invece mi sentivo un po’ pesce fuor d’acqua, non sentivo di appartenere a quel livello di atletica. A rendermi più sicuro oggi ci hanno pensato anche le esperienze fatte all’estero, soprattutto tra quest’anno e quello passato: mi hanno aiutato a vedere com’è considerata l’atletica fuori dall’Italia. Oltreconfine c’è proprio un altro modo di percepire lo sport, mentre qui spesso se ne ha una visione molto provinciale, dove a prevalere è il concetto di sfida gli uni contro gli altri. Andarmene di tanto in tanto mi ha aiutato ad assumere un’attitudine diversa”.
Come e quando ti sei avvicinato all’atletica? È stata passione a prima vista o c’è voluto del tempo per fartela piacere?
“C’è voluto del tempo per appassionarmi. Prima giocavo a calcio, soprattutto per stare in compagnia perché lo facevano gli amici. I miei genitori hanno provato, senza mai forzarmi, ad avvicinarmi all’atletica, sport che praticavano da giovani. In casa si è sempre respirato questo mondo: si guardavano le gare in televisione, si vedevano film. Dopo un po’ di gare alle scuole medie, ho iniziato a capire che l’atletica meritava attenzione, fino a che in seconda superiore mi sono trovato a un bivio: dovevo scegliere su cosa concentrami, se calcio o atletica. A farmi virare su quest’ultima anche la presenza al campo del Bione di un gruppo di ragazzi, con cui ho instaurato un rapporto a prescindere dall’atletica, facendoli diventare, prima che compagni d’allenamento, amici. Col tempo, a farmi appassionare, ci hanno pensato anche i risultati raggiunti e, in un secondo momento, i valori che questo sport riesce a trasmettere e che tutt’ora me lo fanno amare”.
Ritieni che l’Europeo indoor sia stato il momento più bello della tua carriera sportiva? O ce ne sono stati altri di pari livello?
“Non penso sia stato il più bello. Forse la prima Nazionale da junior perché era il primo obiettivo importante che mi ero posto nella vita, e mi ha dato lo stimolo di fissarne altri, prima magari ritenuti impossibili o quasi da raggiungere. Oltre a questo, ce ne sono altri che mi sono rimasti impressi, anche se magari meno significativi dal punto di vista del risultato, in particolare quelli condivisi con altri compagni. Me ne vengono in mente due: il titolo conquistato ai Campionati italiani Junior di cross nel 2013 a Rocca di Papa, in staffetta con Andrea Elia e Gianluca Bello, e il secondo posto ai Campionati italiani di cross conseguito settimana scorsa a Gubbio per l’Atletica Lecco, insieme a Lorenzo Forni, Francesco Raineri e Marco Aondio. Mi è sempre rimasto lo spirito di squadra di quando giocavo a calcio, per questo magari do maggior rilevanza a simili risultati rispetto ad altri, magari agonisticamente ritenuti meno importanti paragonati agli Europei appena trascorsi”.
Hai mai pensato invece di voler smettere con questo sport? Se sì in quali circostanze?
“Sì, ci ho pensato. Il primo periodo difficile l’ho avuto nel 2016: sono stato fermo un anno per infortunio, e mi sembrava di trovarmi in un tunnel senza uscita. Era un momento particolare anche al di fuori dell’atletica, perché coincideva con la fine delle superiori e l’inizio dell’università. Parlando di tempi più recenti invece, ho pensato di smettere lo scorso anno, a fine stagione agonistica, poi per fortuna mi sono dato un’ultima possibilità. Le soddisfazioni in questo sport sono tante, ma vanno cercati stimoli continui. Se mancano è difficile continuare a certi livelli, viene voglia di correre ma prendendosela con più tranquillità”.
In Nazionale ti sei trovato di fronte a tanti grandi atleti. Tra di loro c’era qualcuno che ritieni un modello? Oppure ne hai altri come punti di riferimento?
“Al di là dei nomi arcinoti, se penso a un esempio mi viene in mente il mio compagno Simone Barontini, un ragazzo che nella sua carriera ha ottenuto tantissimo. Mi ha aiutato vedere il modo in cui affronta le gare e come è maturato nel tempo. Prima che un grande atleta, è un amico”.
Quanto è contato per te il sostegno della famiglia?
“Tantissimo. I miei genitori, come già detto, non hanno mai forzato la mano sulle mie scelte, che fosse giocare a calcio o fare atletica. Quando ho deciso di cimentarmi in quest’ultima erano indubbiamente contenti perché è la loro disciplina, ma a prescindere mi hanno sempre supportato, facendomi comprendere quanto fosse importante lo sport in generale nella formazione di una persona. Anche se praticarlo ad alti livelli ha significato e significa sacrificare i rapporti con loro, mi hanno sempre appoggiato, anche negli studi portati avanti in parallelo all’attività sportiva, lasciandomi tutta la tranquillità del mondo. Sono i primi che devo ringraziare pe i risultati raggiunti e per la persona che sono diventata facendo questo sport”.
Hai lavorato con due allenatori, Stefano Righetti e adesso Pietro Endrizzi. Quali insegnamenti ti hanno lasciato e in che modo hanno contribuito a farti crescere come atleta?
“Righetti è stato il mio allenatore qui a Lecco, fino al 2016/2017. Mi ha trasmesso il suo ‘imprinting’ nel modo di affrontare l’atletica, facendomi capire che non doveva essere l’unica strada possibile, ma quanto fossero importanti anche altri obiettivi nella vita, come scuola e università. Pe lui lo sport non doveva essere qualificante di per sé, ma qualificare la persona, capace di farla crescere indipendentemente dal livello praticato. Un approccio che non adottava solo con me, ma con chiunque decidesse di cimentarsi nell’atletica. Con Endrizzi, mio attuale allenatore, mi sono trovato subito bene. Adesso mi segue a distanza, preparando programmi di allenamento. Ci sentiamo quotidianamente. Dal punto di vista atletico i risultati ottenuti sono esclusivamente merito suo, che continua ad allenarmi con la stessa passione di quando ero a Trento, come se fosse tutti i giorni sul campo con me”.
Agli indoor hai corso la batteria dei 3000 metri. È la tua distanza preferita oppure ne prediligi altre? Perché?
“I 3000 metri sono una distanza che sento di padroneggiare in gara. Avevo iniziato con i 1500 metri e mi piacevano tantissimo ma, col passare del tempo, mi sono reso conto che alcune doti mi mancavano per competere a livello internazionale, come lo spunto veloce. Allora ho deciso di allungare la distanza, passando ai 5000 metri, su cui punterò anche nei prossimi appuntamenti estivi. Penso però che attualmente la distanza che mi viene meglio siano i 3000 metri, perché sui 5000 ancora mancano base aerobica e km. Anche se la metamorfosi non è ancora completata, mi vedo correre in futuro sempre più su quest’ultima distanza”.
Com’è una tua giornata tipo di allenamento?
“Dipende dai giorni. Quando devo fare doppio allenamento mi sveglio al mattino, studio ed esco per un’oretta, facendo corsa lenta o salite. Poi pranzo, nel pomeriggio studio ancora fino a circa le 18, e poi faccio un altro allenamento di corsa o qualche allenamento specifico come le ripetute in pista o in ciclabile, per circa 10-12 km”.
Oltre a praticare atletica, stai per l’appunto studiando Giurisprudenza. Come vengono visti gli atleti nel mondo accademico?
“Innanzitutto ho avuto fortuna nel riuscire a portare avanti in parallelo le due attività, studio e corsa, grazie al progetto TOPSport, che agevola gli studenti impegnati in sport ad alti livelli. È un programma in cui è difficile entrare perché i posti sono limitati: accettano due studenti per facoltà, un ragazzo e una ragazza. A disposizione viene messo un tutor per chiedere indicazioni sui materiali per gli esami o altri aspetti più specifici, e viene data la possibilità di conseguire esami al di fuori della sessione classica, tenendo conto degli appuntamenti sportivi. Sul modo in cui vengono visti gli atleti, posso dire che alcuni professori sono entusiasti, buona parte invece ritiene che chi pratica sport ad alti livelli non debba frequentare facoltà impegnative. Inoltre, entrando nei gruppi sportivi militari, a chi diventa professionista viene data la possibilità di un impiego una volta terminata la carriera sportiva, e questo influisce nello scoraggiare l’atleta a proseguire gli studi. Da parte mia, essendo cresciuto in un contesto dove sia i miei genitori che il mio ex allenatore, Stefano Righetti, hanno sempre dato importanza alla formazione, la scelta di impegnarmi in sport e studio contemporaneamente è stata naturale. Non per tutti è così, e mi rendo conto che in generale non si facciano grandi sforzi per far capire agli atleti che è possibile portare avanti entrambe le cose”.
Ora che hai centrato un traguardo così importante come la convocazione agli Europei, come vedi il tuo futuro nella corsa? Ti sei già prefissato altri obiettivi anche al di fuori?
“Fino alla fine di questa stagione agonistica continuerò a investire nell’atletica, vorrei migliorare i primati personali in tutte le distanze, soprattutto nei 5000 metri, a cui punto maggiormente. Ad agosto ci sono i Mondiali a Budapest: so che è difficile qualificarsi ma non lo escludo, mi piacerebbe migliorare il ranking. Oltre all’atletica, sto scrivendo la tesi e mi mancano pochi esami per laurearmi. L’anno prossimo intendo frequentare un master in Food and Beverage Management, vorrei occuparmi di questo nella vita. Continuerò sicuramente a correre, fa parte di me e non mi vedo smettere del tutto, ma diventerà un’attività collaterale a quella che sarà la mia professione futura”.
Se dovessi descrivere il tuo percorso d’atleta in una parola, quale useresti?
“Gratitudine. Adesso che sono arrivato in fondo al percorso, lo posso dire chiaramente, questa parola rappresenta al meglio quello che è stato per me. Ci sono stati momenti in cui volevo smettere o sono stato arrabbiato, opportunità che sentivo di meritare e non mi sono state date. Nonostante tutto però ho sempre avuto ben lampante una cosa: aver potuto fare sport ad alto livello è una fortuna, e dallo sport ho sempre cercato di prendere quel qualcosa in più che poteva darmi anche come persona, indipendentemente dalle occasioni o dai risultati a breve termine. Comunque vada, questo percorso mi ha aiutato e mi aiuterà a crescere nella vita di tutti i giorni, e sarò sempre grato di aver avuto una possibilità simile”.