Dopo anni di sudditanza psicologica, il coraggio di dire basta: “Ho deciso di andarmene di casa portando via le poche cose che servivano per me e mia figlia”
“Queste cose accadono in un contesto amoroso, in cui siamo disarmate: pensiamo che ciò che ci accade sia per il nostro bene”
LECCO – “La cosa più difficile è stata liberarmi di quel senso di vergogna che mi attanagliava. Mi vergognavo a parlare di ciò che mi stava succedendo perché quando passi una vita a sentirti dire che non vali niente, finisci per convincertene e non dai più la giusta importanza alle cose. Poi ho capito che a dovermi vergognare non ero io, ma chi mi maltrattava”.
Adele è una donna vittima di violenza. Per quasi 20 anni ha subito vessazioni, soprattutto psicologiche, da parte del suo ex compagno fino a che ha deciso di reagire, per tutelare se stessa e sua figlia. Un percorso lungo, non facile, pieno di dubbi e di vergogna, che alla fine, però, l’ha resa libera e di nuovo felice. Della sua storia Adele ha parlato anche in pubblico, in occasione di eventi dedicati proprio al tema della violenza di genere: “La prima a chiedermi di raccontare la mia esperienza era stata Lella Vitali, allora presidente di Telefono Donna Lecco Odv. Ho accettato non per megalomania, ma proprio per cercare di dare un messaggio a chi vive situazioni di violenza. Come dico sempre, non è facile, non c’è una ricetta valida per tutte, ma se ne può uscire”.
Nel ricordare la sua storia Adele si scusa più volte: “Quando ne parlo tendo a perdere il filo del discorso, è la sindrome post traumatica da stress” mi dice. Io penso sia ancora più coraggiosa. “La prima cosa che vorrei dire è che quando è capitato a me non c’era ancora così tanta informazione come oggi. Sono contenta di vedere che sono stati fatti tanti passi in avanti per aiutare ad individuare le situazioni di violenza, soprattutto quand’è psicologica, la più difficile da realizzare e da affrontare”.
“La seconda cosa è che, quando ho deciso di ‘uscire allo scoperto’ e di denunciare la mia situazione le domande più comuni di chi mi conosceva sono state le più faticose: ‘Ma perché non l’hai lasciato? Ma come hai fatto a non accorgertene? A, se fosse capitato a me stai pur certa che me ne sarei andata prima’. No, non è così facile. Perché il contesto in cui avvengono queste cose è un contesto d’amore, o almeno di presunto amore e quindi siamo disarmate. Io personalmente pensavo che il mio compagno mi amasse e che quindi facesse queste cose per me. Ecco la prima trappola”.
Adele vive una relazione apparentemente normale e costruttiva: “Parlavamo di progetti futuri di vita, di fare una famiglia, poi ad un certo punto il binario è diventato quello dell’egocentrismo, tutto doveva ruotare intorno a lui”. Le discussioni diventano più faticose: “Non perdeva occasione di sminuirmi, facendo a pezzi la mia autostima, criticava, oppure mi puniva con lunghi silenzi, anche per le cose più banali, e dopo questi episodi non mancava di prodigarsi in scuse che io accettavo, convinta fosse tutto normale”.
Poi la decisione di fare una famiglia e una lunga tregua: “Per un periodo è filato tutto liscio, lui sembrava un’altra persona”. Adele rimane incinta: “Raggiunto l’obiettivo è uscito nuovamente dal binario e lì ho capito per la prima volta che le cose così non potevano andare anche se la mia sindrome da crocerossina mi ha tenuto al suo fianco ancora a lungo. Pensavo che dovevo aiutarlo, non aveva altre persone che potessero farlo, si era allontanato dalla sua famiglia e anche dalla mia. Io stesso mi ero isolata, l’unica cosa che mi ha tenuta agganciata alla realtà è stata il lavoro. Ma ero finita in un vortice, di cui mi vergognavo a parlare, tant’è che avevo iniziato a vedere, di nascosto, uno psichiatra, convinta di avere io i problemi. Ricordo che in una seduta mi disse ‘Guardi che ad avere problemi non è lei, ma il suo compagno’. Mi aveva trascinato dentro la sua compulsività”.
Adele va in depressione. “Lui continuava a sminuirmi ad ogni occasione, quando ha iniziato a farlo davanti alla nostra bambina ho capito che ero all’ultima tappa, non ne potevo più. Era il 2008, l’8 maggio ho chiamato Telefono Donna e ho iniziato il mio percorso contro la violenza. Ho deciso di andare via di casa, in un giorno ho portato via le poche cose che servivano per me e mia figlia e grazie all’aiuto di mia sorella e della mia famiglia ho ricominciato una nuova vita. Ci ho provato, perché per liberarmi definitivamente di lui ci sono voluti altri svariati anni”.
Oggi Adele ha una relazione che la rende felice, nonostante il calvario passato (la sua storia ha avuto anche risvolti legali). “Ricordo che quando ho chiamato Telefono Donna ero spaesata, ai tempi non si parlava ancora molto di sudditanza psicologica, non sapevo come spiegare la mia situazione, temevo di venire giudicata, mi vergognavo. Invece ho trovato una realtà sensibile, preparata e attenta, che non mi ha mai fatto sentire fuori luogo e anzi, mi ha accolta e sostenuta, facendomi capire che la pazza non ero io, ma la persona che credevo mi amasse”.
Adele ribadisce: “Per uscire dalla violenza non c’è una regola fissa: sicuramente bisogna essere pronte e consapevoli. Io mi sono pentita di non averlo denunciato a tempo debito il mio ex compagno, anche dopo averlo lasciato mi sentivo comunque dispiaciuta, poi c’era nostra figlia, mi ero convinta che anche se con me aveva sbagliato avrebbe potuto essere un bravo papà, almeno per lei. Ripeto, queste cose sono estremamente difficili perché accadono in una sfera affettiva e amorosa. C’è un sentimento, c’è la fiducia, e tu ti convinci davvero che quello che accade sia per il tuo bene”.
In conclusione, rivolge un appello anche ai familiari e agli amici: “Se avete una persona vicina che cambia comportamento o si isola, o trova scuse per non vedervi, non lasciatela sola, statele vicino, perché è possibile che dietro ci sia qualcuno che sta lavorando malamente. Anche insieme, si può vincere la violenza”.