LECCO – Settant’anni dopo per tener vivo e acceso il ricordo di quanto successo quel 7 marzo 1944, quando una trentina di lavoratori lecchesi furono arrestati e deportati in Germania per aver preso parte a uno sciopero: è questo il senso della celebrazione avvenuta giovedì 6 marzo a Lecco, alla quale come ogni anno ha partecipato anche Pino Galbani, uno dei lavoratori deportati e sopravvissuti all’inferno del campo di Mauthausen-Gusen.
Prima dell’incontro con gli studenti e le autorità civili e militari presenti, il corteo, partito dalla chiesa di Castello, ha raggiunto il parco “7 marzo 1944” per deporre una corona di fiori, quindi il monumento in ricordo ai deportati lecchesi via Castagnera, dove il professor Salvatore Gallo ha ricordato come “l’istituto Bertacchi sorga in un luogo di memoria condivisa, dove una volta c’era la fabbrica Rocco Bonaiti: abbiamo quindi il privilegio di vivere in un luogo storico, oltre che la paternità e l’onore di ospitare anno dopo anno la manifestazione del 7 marzo davanti a tanti alunni”.
“Settant’anni eppure mi pare che il fatto sia avvenuto recentemente – ha esordito Pino Galbani, all’epoca dei fatti diciassettenne operaio alla Rocco Bonaiti di Lecco – poiché è ancora vivo in me il ricordo di quel pomeriggio, quando si sparse in città la dolorosa notizia che raggiunse quaranta famiglie lecchesi, avvertite che i loro cari non erano più al lavoro, ma erano stati strappati da una compagnia di camicie nere giunte da Como. I fascisti erano entrati abusivamente nella fabbrica violando il passo carraio in via Balicco, senza passare dall’entrata principale, esigendo i nominativi di chi aveva organizzato lo sciopero: nominativi ovviamente non ce n’erano, ma l’adesione degli operai fu totale. Con quello sciopero si chiedeva la fine di una guerra che si trascinava da troppi anni e un piccolo aumento di salario per poter acquistare la farina per la polenta”.
“Ricordare o raccontare la vita del deportato – ha proseguito Galbani – non è possibile: al massimo c’è una storia, ma la vita del deportato cessava di esistere nel momento in cui veniva stipato su quei vagoni merci, nei quali veniva privato della propria intimità e umiliato di fronte ad altri deportati”. “Gli operai lecchesi deportati a Gusen – ha raccontato ancora Pino Galbani – furono 26, ma soltanto in 7 ebbero la forza, o meglio, la fortuna per sopravvivere alle torture del campo; gli altri 19 sono rimasti là disperatamente soli, senza un’effigie che ricordasse il loro nome e il loro volto. Oggi, 70 anni dopo, siamo qui per ricordarli e onorarli, perché sono stati i precursori caduti per la pace e la liberà”.
“Al mio rientro a casa – ha ricordato ancora Galbani – il momento degli abbracci e della felicità durò poco, perché subentrò subito il dolore dei familiari che mi chiedevano notizie dei propri cari: io dovevo dire loro che erano rimasti là senza una sepoltura e raccontavo quello che ci era successo, ma in molti si rifiutavano di credere a quello che dicevo. Per questo, fino al 1995, ho chiuso il dolore nel mio cuore e i pensieri nella mia mente, senza più parlare di quell’inferno, perché la gente non credeva alle mie parole. Soltanto dopo 50 anni e con la proiezione del film inglese girato a Ravensbrück ho sentito il dovere di svolgere il mio ruolo di testimone oculare, perché la gente si rifiutava ancora di credere che fosse successo veramente. Per questo ho iniziato a incontrare i ragazzi nelle scuole e a loro dico sempre di lottare per la pace e l’amicizia: solo quando i popoli saranno amici tra di loro potremo avere quella pace vera cercata da tutti”.

RADIO LECCOCITTÁ CONTINENTAL




















































