Il traffico illecito di rifiuti e le società affidate ai prestanome
Come agiva il gruppo della ‘ndrangheta capeggiato da Cosimo Vallelonga
LECCO – In tre anni, dal 2015 al 2018, il sistema messo a punto dall’organizzazione criminale aveva fruttato 29 milioni di euro, soldi prelevati in contanti dagli affiliati presso uffici postali della provincia. Ogni volta che effettuavano un prelievo, non superavano mai i 15 mila euro per evitare i controlli automatici previsti, peccato che le somme (spesso e volentieri di 14,9 mila euro a prelievo) hanno comunque destato sospetto facendo scattare la segnalazione dalla Poste alle forze dell’ordine.
E’ uno dei particolari che emerge dall’ultima inchiesta contro la ‘ndrangheta nel lecchese, sfociata martedì nei 18 arresti compiuti da Polizia e Guardia di Finanza che hanno sbaragliato l’associazione criminosa capeggiata dal pregiudicato Cosimo Vallelonga (vedi articolo).
Secondo le indagini era lui, dall’ufficio del negozio di mobili a La Valletta Brianza “ArredoMania” intestato al genero, che dirigeva gli “affari” del gruppo con la collaborazione del calolziese Vincenzo Marchio (figlio di Pierino, già condannato quale affiliato alla ‘ndrangheta) come Vallelonga accusato di associazione di stampo mafioso.
Attorno ai due era attiva una rete di fiancheggiatori, tratti in arresto e che, secondo le indagini, venivano posti alla guida delle società utilizzate per il traffico di rifiuti e necessarie per riportare il denaro in un circuito legale.
“Le società, tutte gestite e controllate dai vertici del sodalizio pur essendo le cariche sociali intestate a prestanome – si legge nell’ordinanza delle misure cautelari – realizzavano, mediante il ricorso a false fatturazioni, ingenti profitti illeciti che – attraverso regolari bonifici, emessi a fronte delle false fatture, sui conti delle società degli indagati – venivano in parte destinati all’acquisizione di ulteriori attività economiche, nel settore del commercio di autovetture e della ristorazione” tra questi, secondo gli inquirenti, ci sarebbe un locale a Curno, finanziato in parte grazie a questi proventi illeciti.
Soldi che sarebbero serviti anche a pagare “gli stipendi” delle persone a libro paga dell’organizzazione oltre che essere investiti nuovamente nel traffico di rifiuti attraverso gli acquisti in “nero” effettuati dalle società nelle disponibilità del gruppo.
Tra queste, secondo le indagini, c’è la A.M. Metalli di cui è stato socio unico e amministratore Alessandro Malacorda di Calolzio, fino all’ottobre 2015, quando poi gli è subentrato Luciano Mannarino, residente a Brivio, amministratore anche della ML Metalli. Stesso ruolo per la ‘Metal Point di Pace Vincenzo’ e la Copper Point affidate fino al gennaio del 2018 al calolziese Vincenzo Pace.
Fabrizio Motta era invece amministratore e socio unico della All Metal che avrebbe gestito avvalendosi della collaborazione di Jennifer Buonavoglia, residente nella bergamasca e ora ai domiciliari.
La Torinese Metalli faceva formalmente capo, fino a settembre 2018, a Claudio Gentile che era socio unico anche della GC Auto, società che per gli inquirenti era stata creata per movimentare le somme di denaro realizzate dal traffico di rifiuti, così come la Monti Auto e la ditta individuale Monti Danilo, intestate all’omonimo Danilo Monti, residente a Valmadrera e già in carcere in quanto accusato dell’assassinio di Francesco Rosso, macellaio ucciso nel 2015 in provincia di Catanzaro.
Benedetto Parisi, residente a Mandello e figlio di Santo (agli arresti domiciliari), è per gli inquirenti l’amministratore di fatto e autista della SB Trasporti intestata alla bergamasca Clara Ferrari (ai domiciliari) e avrebbe messo a disposizione i mezzi dell’azienda per movimentare in modo irregolare le carcasse di metallo trafficate dall’organizzazione.
Una rete che, secondo gli inquirenti, avrebbe contato anche sugli imprenditori bergamaschi Roberto Novelli e Claudio Bissola del settore dei trasporti (entrambi ai domiciliari), Marco Ricci come “fornitore in nero” dei rifiuti ferrosi (ai domiciliari), e sul bresciano Vincenzo Geroldi (anche lui agli arresti domiciliari) per gli inquirenti “destinatario” di parte del materiale ferroso oggetto del traffico illecito.
Diecimila sono in tutto le tonnellate di rifiuti che l’organizzazione criminale avrebbe gestito in modo illecito.
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