LECCO – Si chiude martedì 28, con il terzo appuntamento lecchese, l’iniziativa “Prospettive sull’arte come veicolo” promossa dall’associazione Frammenti di Filosofia presieduta da Enrico Bassani, Teatro Invito presieduto da Luca Redaelli, Mechrì Laboratori di Filosofia e Cultura presieduto da Florinda Cambria con il sostegno della Provincia e del Comune di Lecco e che ha visto incontri con il Focused Research Team in Art as Vehicle del Workshop di Jerzy Grotowski e Thomas Richards.
L’esperienza dell’ “arte come veicolo” martedì diverrà oggetto di riflessione e vedrà Thomas Richards in dialogo con alcuni degli ideatori del progetto “Prospettive sull’arte come veicolo”. Due “prospettive” verranno infatti incrociate e aperte a un fertile confronto in questo appuntamento che conclude l’intero ciclo: una prospettiva performativa (Richards) e una filosofica (Sini e Cambria) con Bassani a fare da moderatore dell’incontro.
Per l’occasione abbiamo incontrato la presidente dell’associazione Mechrì Laboratori di Filosofia e Cultura.
Dottoressa Cambria, qual è il punto di contatto tra il teatro e la filosofia?
“E’ un contatto che ha a che fare con il movimento e con la filosofia non nella sua accezione tradizionale, ma come pratica della conoscenza. Il legame tra filosofia e teatro in questo senso è forte perché anche il teatro ha a che fare con l’incarnazione della azione conoscitiva, ovvero nel fare accadere qualcosa come segno di qualcos’altro. Per esempio, se io dico: ‘cielo azzurro’ pongo una presenza concettuale. Questa presenza concettuale, ossia l’azzurro del cielo, si fa presente ad ogni umano che mi ascoltasse, anche se sopra alle nostre teste abbiamo un cielo plumbeo. Come accade che gli esseri umani sanno fare questa cosa? Questo movimento delle conoscenza non appartiene alla conoscenza del singolo, ma appartiene alla conoscenza generale”.
L’arte è rappresentazione in questo caso invece è veicolo, perché? Cosa cambia? Ed è veicolo di cosa?
“L’arte in senso lato è rappresentazione, cioè ripete, imita qualcosa che già c’è o presenta una qualità dell’esperienza che non c’è ancora ma che si può mettere in presenza. L’arte come creazione non è mai ripetizione di qualcosa che c’è già, ma è la ricomposizione di qualcosa che non c’è. L’arte intesa come creazione, ha avuto vari destini nella tradizione europea e in particolare l’arte teatrale si è declinata, almeno nell’età moderna, in arte della rappresentazione. Tant’è che lo spettacolo più di altre forme d’arte si è prestato a questa attitudine: sottoporre allo sguardo di altri qualcosa attraverso una presentazione di azioni e non di opere. L’arte, o meglio il teatro, ha avuto una lunga tradizione come presentazione e prevede che ci siano attori e spettatori che sono ricettivi in modo passivo. Jerzy Grotowski decide di abbandonare la presentazione e avviare una ricerca legata alla possibilità di fare accadere esperienze non attraverso la rappresentazione che induce una percezione ricettiva, ma attraverso pratiche che consentano di fare accadere qualcosa all’attore. Nel teatro come presentazione, la sede del montaggio è la percezione dello spettatore. Un bravo regista sa come comporre le azioni sulla scena affinché nello spettatore si verificano esperienze percettibili. Nell’arte come veicolo, il luogo del montaggio è l’attore stesso e da quel momento in poi, l’attore diventa ‘attuante’ ovvero colui che agisce. Ed è attraverso un preciso modo di agire con la voce, il corpo, l’attenzione, si può verificare una ‘trasformazione dell’energia’ per usare le stesse parola di Grotowski.
In questo modo l’attore fa un’esperienza di dilatazione della sua presenza, percepisce un accrescimento che modifica il suo modo di stare con gli altri offrendo anche agli altri questa possibilità. Quindi l’arte come veicolo consente una trasformazione nel modo di stare al mondo di chi agisce. Si tratta di una dimensione non intimistica, non ad una scoperta di sé, ma al contrario tende all’oblio dell’io, e questo attraverso un esercizio di memoria, un denudamento, uno smascheramento non finalizzato a cercare l’io ma a rivelare la storia sterminata che cammina dentro di noi, arrivando ad avvertire non solo quello che so di me, ma dell’intera folla di vite passate e presenti, cultura, tradizioni ed esperienze che porto dentro di me”.
In che senso e in che modo il teatro, nell’accezione di Thomas Richards, cambia chi lo frequenta? E la filosofia?
“Cambia il modo di stare al mondo, di guardare le cose, di relazionarsi agli altri. E se ci pensiamo, le arti nella loro matrice più arcaica, non erano opere per fruizione estetica, ma una memoria condivisa, dove arte e rito quasi si confondevano”.
Qual è punto di arrivo sociale, etico a fronte di un lavoro di questo tipo?
Grotowski lavora in questa ricerca con il suo allievo Richards e a partire dal ’96 il Work Center di Pontedera, diventa Workcenter di Jerzy Grotowski e Thomas Richards. Alla scomparsa di Grotowski nel gennaio del ’99 i suoi allievi e il direttore associato Mario Biagini, si sono trovati col compito di decidere cosa fare di quello che avevano imparato. A quel punto aprono un doppio binario, da un lato continuare con la ricerca interna e dall’altra tornare a condividere, portare fuori in forme diverse il lavoro del workcenter con presentazione pubbliche, momenti di incontro, residenze, in tutto il mondo”.