Il racconto di come la Rsa ha affrontato l’emergenza
“Ora bisogna guardare anche al benessere psicofisico dei pazienti”
CALOLZIOCORTE – Non parleremo di numeri, nessun dato sui contagiati o sui morti. Sgombriamo subito il campo. L’intenzione è quella di provare a raccontare come ha vissuto l’emergenza covid la Rsa Casa Madonna della Fiducia di Calolziocorte accompagnati da chi lavora tutti i giorni in prima linea. Siamo partiti dall’esigenza della Residenza Sanitaria Assistenziale di riaprire le porte ai parenti con tutte le precauzioni e sicurezze del caso. Poi, durante l’intervista al direttore sanitario della struttura, il dottor Davide Fumagalli, e al direttore Ivano Venturini, lo sguardo si è allargato rivelando aspetti che nell’emergenza sono passati in secondo piano.
Rsa e fase 2, ora è necessario riaprire
“Anche le Rsa, ovviamente, sono pienamente coinvolte nella nuova gestione delle politiche di un riavvicinamento agli affetti e alle famiglie degli ospiti. L’équipe direzionale della struttura si è trovata per verificare le nuove disposizioni che intendiamo mettere in campo abbastanza velocemente. C’è un aspetto di benessere globale del paziente, un aspetto psicofisico che non va trascurato: non possiamo pensare di non vivere una vita e farci vivere da qualcun altro. Gli ospiti, in maniera emergenziale, sono stati isolati nella loro stanza, ora dobbiamo andare verso un’apertura. Con questo virus dobbiamo imparare a convivere: o decidiamo di stare chiusi in una bolla finché non si trova la cura o il vaccino, oppure dobbiamo trovare strategie comuni che ci facciano vivere la vita in sicurezza”.
La parola d’ordine è sicurezza
“Stiamo parlando di dare appuntamenti ai famigliari, uno alla volta, per un tempo limitato, in un giorno e orario predefinito, e solo in quel momento è consentito l’incontro tra l’ospite e il suo famigliare. Chiaramente con distanze di sicurezza, l’utilizzo di dispositivi di protezione. Mettere in comunicazione e non a contatto, in luoghi appositi separati dai nuclei delle Rsa. Non possiamo assolutamente far accedere i parenti ai nuclei, le famiglie accederanno in giardino o negli ampi spazi del salone”.
Forse la strada più difficile, ma di fatto è l’unica via
“Finita l’ondata di patologie respiratorie (che sicuramente si riproporranno stagionalmente visto che parliamo di un virus con cui dovremo convivere per sempre), stiamo vedendo che l’isolamento ha effetti devastanti sui nostri ospiti: una buona parte dei decessi registrati sono imputabili non tanto al virus, ma al declino delle condizioni psicofisiche. Persone già minate da una fragilità pregressa, molto anziane, che perdono ogni stimolo nonostante le strategie intraprese: video-chiamate, televisione in camera e un servizio di fisioterapia e animazione rimasto attivo con iniziative individuali. Provate a mettervi nei panni di queste persone che da un momento all’altro vedono operatori vestiti come astronauti e non hanno più contatti diretti con le loro famiglie. Tanti anziani rischiano di soccombere per questa solitudine e noi, nel più stretto rispetto della normativa, dobbiamo fare qualcosa”.
Come è cambiato il vostro modo di stare vicini a queste persone?
“Bisogna ripercorre un po’ il periodo. Tra febbraio e marzo, come abbiamo comunicato, ci sono stati alcuni casi sospetti e altri accertati, perciò abbiamo messo in atto una forma di isolamento ‘estremo’: un settore dedicato con tutti gli accorgimenti del caso, esattamente come se fosse un ospedale. Il personale ha vissuto momenti di stress con la paura di contrarre il virus e magari ritrasmetterlo agli ospiti. Ogni azione è diventata individuale e la socialità è venuta meno. In un certo senso abbiamo dovuto fare anche le veci dei parenti, però senza mai avvicinarci troppo all’ospite. Da una ventina di giorni, anche se molto tardivamente, abbiamo la possibilità di fare tamponi e, per fortuna, la maggior parte sono risultati negativi. Al momento la situazione è tranquilla, abbiamo solo due ospiti isolati, asintomatici, in attesa di tampone negativo di conferma. Sicuramente dobbiamo stare sempre allerta”.
Cosa vi ha permesso, pur nelle difficoltà, di avere la lucidità di ragionare sulle situazioni?
“Le cose non vengono lasciate al caso: ci troviamo quotidianamente a discutere, pianificare, rilevare criticità, trovare le soluzioni, lavorando sempre a stretto contatto nonostante mascherine e camici. Questo ci ha dato la forza di lavorare assieme, la squadra coesa è una squadra vincente in ogni situazione. Poi c’è la professionalità con cui si affrontano i problemi, lasciando da parte le paure. Magari il personale ha paura ma a livello di dirigenza è necessario avere la lucidità per fare le scelte giuste. Stiamo parlando di un’emergenza sanitaria, un virus che fa ammalare e uccide. Noi non siamo il Padre Eterno, ma possiamo fare il nostro lavoro con professionalità”.
La preparazione ha fatto la differenza?
“Non ci aspettavamo una situazione del genere, ma abbiamo capito molto presto quello che stava succedendo. Da sempre tracciamo in tempo reale tutti i casi di infezione correlati all’assistenza: dall’influenza all’infezione alle vie urinarie, ogni cosa viene registrata. Questo ci ha permesso di individuare subito un grande aumento nei numeri e ci ha permesso di avere ben chiara la situazione di ogni ospite. Anche se solo clinici avevamo in mano dei dati, vero è che se a inizio marzo ci avessero dato 200 tamponi a quest’ora avremmo avuto la mappatura completa e la situazione sotto controllo al 100%. Questo non è stato possibile, ma la professionalità ci ha consentito comunque di avere il quadro. Poi bisogna anche dire chiaramente che è impossibile escludere che il virus non possa entrare dall’esterno, è un fattore imprevedibile e proprio per questo bisogna essere sempre pronti”.
Con che occhi si guarda adesso al futuro?
“Ogni giorno viviamo il nostro lavoro come un passo in avanti. Se ci sono difficoltà bisogna reagire e cercare di migliorare sia le condizioni degli ospiti che degli operatori. Questo non vuol dire che adesso andrà tutto bene: siamo consapevoli che, verosimilmente in autunno, si ripresenterà il virus, se necessario torneremo a chiudere e faremo tutto quello che va fatto nel rispetto dell’ospite, del personale e delle normative. La soddisfazione più grande di questi mesi difficili è il lavoro fatto in équipe: non abbiamo avuto operatori che sono scappati impauriti, non ci sono state polemiche, i colleghi hanno mostrato una grande maturità e un grande attaccamento al lavoro. Vedere questo impegno è stato emozionante, indipendentemente da come potrà evolvere la situazione. Oggi siamo tranquilli, magari domani capita l’imponderabile e si casca nel buio più totale. Questo virus non lo conosciamo perciò è inutile fare previsioni a lungo termine”.
La sensazione è che le Rsa siano diventate il capro espiatorio perfetto
“Purtroppo si è perso di vista l’orizzonte dell’utenza che arriva nelle Rsa: non è più la casa di riposo dove c’è il nonno col bastone che gioca a carte, togliamoci questa idea stereotipata. Le strutture sanitarie per anziani accolgono pazienti pluripatologici, defedati, con grossi problemi sanitari. Siamo dei ‘piccoli ospedali’ a cui si aggiunge la parte assistenziale preponderante. Dobbiamo garantire gli stessi identici standard ospedalieri: non abbiamo rianimazione e sala operatoria, ma per il resto qui abbiamo tutto e il lavoro che facciamo è lo stesso. C’è amarezza nel constatare che nel 2020 non si è ancora capito cosa sia una Rsa: non è l’ultima spiaggia degli anziani, nemmeno un albergo dove si va a passare gli ultimi anni di vita. La media d’età dei decessi calcolata dal 1° gennaio al 30 aprile nella nostra Rsa è di circa 90 anni. E’ un’utenza molto diversa dalla popolazione generale e non rappresentativa degli anziani del territorio. E quando parliamo di Rsa parliamo di circa 70.000 posti letto in regione, circa lo 0,7% della popolazione globale della Lombardia, se aggiungiamo caregiver e operatori parliamo di circa un 2% della popolazione lombarda coinvolta.
Sarebbe servita maggior attenzione al sistema delle Rsa
“All’inizio dell’emergenza ci si è concentrati prevalentemente sugli ambiti ospedalieri, mentre l’attenzione andava focalizzata anche sul sistema delle Rsa che è stato lasciato a se stesso”.
Anche i dati fini a se stessi hanno scarso valore
“Se nell’analisi dei decessi si prende solo il dato quantitativo e non qualitativo si fa disinformazione. Noi siamo tranquilli non perché abbiamo avuto ‘solo’ cinque morti in più rispetto all’anno scorso, ma perché abbiamo fatto tutto quello che dovevamo e potevamo fare. Non si può aver paura dell’oggettività della situazione. Detto questo è giusto che, se ci sono stati errori, si indaghi ma è necessario anche un cambio di mentalità da parte di tutti e slegarsi dalla morbosità di un numero”.