C’è un mostro nero nello sport, una specie di “malattia” in grado di colpire i ragazzi dai 14 anni in su che praticano sport e che lo hanno fatto per anni senza grossi problemi e con passione.
Ad un certo punto, quasi come una reazione a catena, molla uno… e poi un altro… e un altro ancora: circa il 33% degli sportivi dai 14 anni ai 20… non è più uno sportivo! Questo fenomeno si chiama Drop Out.
Mettendoci nei panni della società sportiva è un vero e proprio dramma: dei 30 ragazzini che ho qui ora, 10 se ne andranno perchè… ecco, la domanda è: perchè?
Secondo molti studi condotti da esperti di psicologia dello sport il principale motivo è la scarsa percezione della propria competenza nello sport, banalmente è la difficoltà ad accettare un confronto prestazionale contro un altro. Questo problema nasce anche da una difficoltà di fondo di cui vengono accusate le società sportive: troppa propensione alla performance (quindi alla valutazione del risultato vs un avversario) piuttosto che alla competenza (il raffronto con i propri miglioramenti personali).
Sono considerazioni corrette e credo che un suggerimento, un consiglio, una disposizione che mi sento di dare è proprio quella di impostare una cultura societaria basata sulla competenza, sul far capire al/la ragazzo/a quanto per diventare bravo in uno sport sia necessario investire su di sè, piuttosto che sprecare risorse nel raffronto continuo ed ossessivo con l’avversario: se io non vivo lo sport come una mia soddisfazione personale lo abbandonerò non appena il confronto si farà “impossibile” (a meno che io non diventi campione del mondo, anche se poi probabilmente mollerò comunque a causa della troppa esasperazione che mi avrà consumato nel percorso).
Detto questo va però capito il reale fenomeno che sta dietro al Drop Out, che è quanto di più osservabile possibile: i ragazzi crescono, vogliono diventare indipendenti e cercare la loro strada. La chiamano pubertà 🙂 E’ il momento in cui la soddisfazione immediata è necessaria, per essere sicuri di stare nel posto giusto ed essere la persona giusta. E’ una lotta verso l’alto, in cui ti senti un perdente se non ci riesci. Negli Stati Uniti questo fattore sociale è più evidente e marcato, spesso è rappresentato come stereotipo nei film dei teenager: il quaterback, spesso un quaterback-teppista, la cheerleader, il nerd (anche se nell’era tecnologica si delineano nuove sotto-categorie come il geek). Da noi invece quasi sempre è un più semplice “pollice su o pollice giù”. E stiamo parlando della vita di tutti i giorni, perciò immaginiamo cosa voglia dire praticare uno sport in cui magari senti di non ottenere risultati e sei facilmente esposto ai giudizi altrui, che in quest’età sono come pugnalate. Non si tratta di resilienza dello sport (la capacità di accettare le sconfitte e di ripartire senza “scorie”), si tratta proprio di ferite dell’ego personale! E se il mio allenatore, la mia squadra, il mio capitano, le persone che ruotano attorno a me non capiscono questa mia sofferenza interiore ecco che inevitabilmente mi sentirò fuori, ancor prima di decidere di lasciare.
Tornando al consiglio iniziale, quello di favorire la competenza e non la performance, ecco che allora ci accorgiamo di quanto sia banale e riduttivo pensare in quei termini, quando dietro ad esso si nasconde un intero universo personale. Culturamente siamo troppo portati a pensare “affari suoi”, “imparerà”, “si arrangerà” per poi manifestare finto stupore quando il ragazzo ci riporta la borsa dicendo che non ha più tempo per partite ed allenamenti…
Questa è la balla numero uno, i ragazzi hanno tempo e soprattutto lo trovano per le cose che amano.
Il particolare da non dimenticarsi è quello dell’identità personale dello sportivo, del valore umano che porta con sè. Se lo considero veramente, se capisco un po’ come funziona la sua testa da teenager lui stesso riconoscerà l’importanza di restare per migliorare come uomo o donna. Lo sport non deve essere un’ostacolo per la realizzazione personale. Anzi deve favorirla.
Dott. Mauro Lucchetta
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