Merate, incontro con Giovanni Impastato: “Mio fratello Peppino: una grande storia di coraggio e dignità”

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Incontro questa mattina, giovedì, con gli studenti del liceo Agnesi e dell’istituto Viganò di Merate

La bella testimonianza di Giovanni Impastato, fratello di Peppino, ucciso dalla mafia nel 1978

MERATE – “Una grande storia di coraggio e di dignità”. Con parole forti, a tratti molto intime e personali, Giovanni Impastato ha raccontato questa mattina, giovedì 7 aprile, la storia del fratello Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978 (lo stesso giorno in cui venne trovato il cadavere di Aldo Moro) dalla mafia. Una testimonianza vibrante, per quanto i toni sono rimasti sempre pacati e mai sopra le righe, che ha coinvolto gli studenti di quarta e quinta del liceo Agnesi e dell’istituto Viganò.

Sono stati proprio i ragazzi, dopo la breve introduzione di Martina Garancini, della libreria Lo Sciame di Arcore, organizzatrice dell’evento insieme al tavolo della pace della Val Brembana, ad animare l’incontro in uno scambio di domande e risposte con Giovanni Impastato, autore di diversi libri, tra cui l’ultimo intitolato “Mio fratello. Tutta una vita con Peppino”. Un dialogo necessario, l’ha chiarito lo stesso fratello, per non dimenticare e continuare a dar voce alla storia di quel ragazzo che giurò di non stare mai con la mafia quando, nel 1963, lo zio Cesare Manzella, boss della malavita, venne fatto saltare in aria proprio da Casa Nostra e che 15 anni dopo venne fatto saltare in aria, proprio come lo zio, perché scomodo con la sua ironia, le sue battaglie, le sue interviste.

Una storia che ha raggiunto il grande pubblico con il film “I cento passi” del regista Marco Tullio Giordana, dando enorme visibilità a una vicenda fino a quel momento rimasta circoscritta nei confini della Sicilia: “Ha fatto di più quel film in 48 ore che noi in 20 anni di ricerche e attività” ha rimarcato Giovanni. Lui, la madre e gli amici di Peppino si erano messi in moto subito, per contrastare i tentativi di depistaggio messi in atto per far passare la morte come un atto terroristico oppure un suicidio (complice una lettera ritrovata in fondo a una libreria in casa). “Siamo andati avanti subito, trattenendo le lacrime” anche quando le istituzioni hanno mostrato le proprie ombre con false testimonianze, inquinamento delle prove, reticenze. “Nostra madre ha sempre voluto giustizia e mai vendetta – ha ricordato Giovanni, parlando di una donna straordinaria, intelligente e sensibile, capace con semplicità di andare al cuore della questione dicendo no alla mafia quando si trovò di fronte a una scelta importante: “Le chiesero se volesse vendicare l’uccisione di Peppino: rispose di no, aggiungendo che voleva solo giustizia. Andò dalle istituzioni e si trovò le porte sbattute in faccia. Ma ebbe la forza di aggrapparsi a quel poco di buono che c’era”.

E qualche porta, con gli anni, la caparbia e la volontà di non cedere, finì per aprirsi facendo incrociare la storia di Peppino con le battaglie di eroi della lotta alla mafia come il giudice Giovanni Falcone. “Loro hanno pagato con la vita l’essere contro alla mafia. C’è chi invece ha preferito non vedere, ha fatto carriera e ora si gode la pensione” ha continuato Impastato, in una constatazione lucida, ma non vendicativa, del corso delle cose. “Sono convinto che ne sia valsa la pena, che Peppino racconti anche oggi una grande storia di coraggio e di dignità”.

Riallacciandosi alla pellicola di Giordana, più volte utilizzata anche come fermoimmagine per immortalare alcuni momenti di vita più significativi (come il funerale del padre durante il quale Peppino non volle stringere la mano ai parenti mafiosi: “io lo feci, e ne conservo ancora il rossore”), Impastato ha evidenziato come spesso i film mitizzano: “Mio fratello è diventato una sorta di Che Guevara italiano. Spesso e volentieri gli eroi però ci appaiono distanti e lontani. Come canta Guccini, sono “tutti giovani e belli”. Meglio quindi pensare a lui come un punto di riferimento”.

Perché – questo il messaggio profondo del fratello impegnato da anni in un tour lungo lo Stivale per incontrare soprattutto i giovani e parlare di radio Aut e delle possibilità di essere contro la mafia da dentro il sistema – Peppino deve esser ancora qui con noi, nei nostri gesti, nel nostro quotidiano. “Penso che la sua testimonianza più bella e profonda sia quella educativa. Peppino ha lasciato a tutti noi un messaggio. Figlio di un mafioso ha operato una grande rottura rispetto alla realtà in cui era cresciuto, anche grazie alla figura dello zio Matteo, da cui era stato mandato dopo la morte, probabilmente per meningite, di altro nostro fratello. E sarebbe riuscito a cambiare anche il nostro paese, Cinisi, che aveva ribattezzato mafiopoli, se solo non l’avessero fatto saltare in aria, come nostro zio. Quando morì zio Cesare, anche io, che avevo solo 10 anni, capii che bisognava essere contro la mafia, ma avevo un altro carattere rispetto a Peppino. Quando uccisero lui, è come se quel filo sottilissimo che mi legava ancora al passato della mia famiglia, si spezzò del tutto”. Correva l’anno 1978. E da allora Giovanni è diventato la nuove voce di Peppino per non silenziare mai quelle battaglie.