Intervista esclusiva a Fulvio Ervas, autore di “Se ti abbraccio non aver paura”

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LECCO – “Se ti abbraccio non aver paura”. Questo il titolo del libro edito da Marcos y Marcos che sarà presentato nella libreria Ibs di via Cavour sabato 6 ottobre alle 18. Una presentazione che vedrà intervenire anche l’autore del romanzo, Fulvio Ervas, giusto qualche settimana fa presente all’ultima edizione del Festival della Letteratura di Mantova. In attesa dell’appuntamento di sabato, Lecco Notizie ha intervistato in anteprima lo scrittore, provando a tratteggiare alcuni aspetti caratteristici del suo ultimo lavoro.

Una vicenda reale, quella narrata in “Se ti abbraccio non aver paura”, che vede Franco e Andrea, padre e figlio, avventurarsi per tre mesi in sella a una moto e attraversare l’America. Sembrerebbe la trama di un romanzo on the road come altri, se non fosse per un dettaglio, che rende il libro di Fulvio Ervas unico nel suo genere: Andrea è un ragazzo autistico e Franco, che deve imparare a vivere con il complesso mondo interiore di suo figlio, decide di prendere di petto la situazione e di trascorre insieme a lui tre mesi di vera avventura. Una storia realmente accaduta e che lo scrittore ha ripercorso minuziosamente nelle pagine del suo romanzo.

Signor Ervas, può raccontarci com’è nata l’idea di scrivere questa storia?

“Tutto è nato dalla richiesta dello stesso Franco, che non conoscevo. Rientrato dal viaggio a settembre del 2010, il papà di Andrea ha avuto la percezione di aver fatto un’esperienza che meritasse di essere raccontata, testimoniando che con un ragazzo autistico si può addirittura intraprendere un viaggio complicato e speciale. L’intento non era quello di offrire una “ricetta” a chicchessia, ma semplicemente di dire: proviamo ad allargare i nostri schemi, a lasciarci guidare dall’istinto, a osare un poco. Sforziamoci di essere, sia pure per un po’, più liberi. Ed è così che quello che avrebbe dovuto essere nelle intenzioni di Franco un diario di viaggio per amici e conoscenti è diventato, lavorando, un romanzo”.

Cosa l’ha convinta a raccontare questa vicenda?

“Mi ha convinto il primo incontro con Andrea, quel suo stare in punta di piedi, quasi sospeso, certi movimenti delicati delle mani, lo sguardo sfuggente e profondo. Poi mi ha tenuto sulla storia la grande capacità di Franco di comunicare quell’esperienza: diretta, con semplicità, con passione”.

Padre e figlio in viaggio su una moto. Come è riuscito a descrivere un’esperienza alla quale non ha preso parte?

“Scrivere è sempre immaginare esperienze, intrecciando quelle che hai vissuto per ottenere forme nuove. Non solo non sono stato nei luoghi del viaggio, ma non sono nemmeno un motociclista e, cosa più rilevante, non sono certo il padre biologico di Andrea. Tuttavia continuo a sostenere che una delle possibilità della mente umana sia quella di entrare in empatia con persone e situazioni che riesci a sentire: anche se non sono tue, ne provi una certa condivisione. Credo che su questo si fondino le migliori doti della nostra specie: la solidarietà, la partecipazione, la costruzione di comunità. Specchiarsi nell’altro non è facile, ma è alla nostra portata. Nel caso del libro, poi, servono le parole, ma lavorando con impegno si sono fatte trovare”.

C’è un episodio che ha narrato nel libro e che l’ha particolarmente colpita?

“In una parte del viaggio, passano con la moto davanti a uno di quei bei cimiteri, un prato con i fiori, e si fermano: Franco spiega ad Andrea che sotto ci sono le persone venute prima di noi e Andrea si toglie le scarpe, allarga le mani e sembra un’aquila che volteggia. Quando ho visto quelle foto, e soprattutto l’espressione di Andrea, mi è sembrato che quel ragazzo riuscisse a dirmi molto sul movimento della vita: un flusso leggero da prendere scalzi e in punta di piedi”.

E’ la prima volta che affronta il tema della “diversità”?

“Insegno chimica e biologia in un liceo di Mestre, storicamente molto aperto e attento all’utenza con diversi gradi di disabilità. Io stesso ho avuto e ho tutt’ora alunni che per stare nel mondo fanno un po’ più fatica di mia figlia o di altri ragazzi. Ne fai esperienza, è soprattutto un esercizio di sensibilità. Poi devi avere, dentro, la convinzione che la vita sia una lotteria, che qualche numero estratto possa essere davvero basso e che sarebbe potuto accadere anche a te, a tuo figlio”.

Cos’ha significato per lei conoscere Andrea e scrivere questo libro?

“Io non ho minimamente una conoscenza di Andrea paragonabile a quella di Franco. Un ragazzo autistico è un bel rebus per le nostre “menti normali”. Quello che mi è stato possibile percepire nelle numerose volte che ho incontrato Andrea è l’energia che ha dentro ma anche l’ottovolante su cui corre la sua mente. Suscita una grande empatia, è innegabile. Forse anche questo è stato uno dei “motori” per scrivere il romanzo, che rimane, soprattutto, una storia di intimità tra un padre e un figlio. Dentro ad una stanza stretta, l’autismo, e contemporaneamente, negli spazi del mondo”.

Qual è, secondo lei, la ragione del successo del suo romanzo?

“Che c’è un grande bisogno di positività e non di lamenti. E poi è necessario avere il sostengo di una casa editrice speciale e la “Marcos y Marcos” lo è”.

Crede che il suo libro possa divenire uno strumento utile a quei genitori che quotidianamente vivono un’esperienza simile a quella di Franco?

“Questo libro, che non è un saggio sull’autismo ma il pezzo di vita di un ragazzo autistico, può attirare l’attenzione sul tema, far pensare alle cause, aiutare molti genitori (come mi ha detto la mamma di un ragazzo autistico a Udine) ad “uscire dalla terra di nessuno”. Ma il fatto che dei nostri concittadini siano costretti a vivere “nella terra di nessuno” attiene al grado di civiltà della società in cui viviamo. Non devono essere i romanzi o la televisione, per quanto possano catalizzare una maggior sensibilità, a dettare il ritmo della nostra maturità civile. La responsabilità è nei gesti di tutti i giorni, nel non lasciare soli questi genitori e ragazzi, nel creare una rete solidale, nel pretendere che le istituzioni siano adeguatamente presenti. Le persone davvero civili non aspettano un romanzo per suonare al campanello della casa di una di queste famiglie e dire: posso aiutarti? Ma se può servire per ravvivare la nostra sensibilità, ben venga”.