L’iperattività si eredita?

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iperattivitaMi è capitato, pochi giorni fa, di ricevere una telefonata inaspettata da parte di una persona, un’amica con cui non parlavo da quando, adolescente, frequentavo l’oratorio. Dopo qualche frase di circostanza mi dice di aver saputo da amici comuni del lavoro che svolgo, lo psicologo, motivo per cui avrebbe voluto parlarmi di una questione che la preoccupava.

Con un po’ di imbarazzo mi racconta di suo figlio, delle difficoltà scolastiche, della scarsa socialità, della fatica a rispettare le regole, chiudendo il discorso con l’accento su una parola: iperattivo.

La descrizione dei comportamenti del figlio effettivamente sembra ricalcare le formulazioni diagnostiche dei vari manuali di psicopatologia dell’infanzia e dello sviluppo. Anche l’elenco dei numerosi tentativi terapeutici, che peraltro si sono rivelati inefficaci, sembra accordarsi perfettamente con il quadro presentato. Prima la logopedia e la psicomotricità, poi la neuropsichiatria infantile oltre ad un numero non ben precisato di psicologi. Insomma un caso da manuale. Peraltro il riferimento alla categoria degli iperattivi è ben marcato nelle parole della madre, quasi come se vi si rifacesse per rappresentare il figlio.

Mio figlio è iperattivo, con questa espressione la madre consegna una fotografia delle difficili circostanze in cui suo figlio versa, e contemporaneamente veicola con essa qualcosa della sua preoccupazione.

Mentre la ascoltavo al telefono mi chiedevo cosa avrei potuto rispondere. Cosa dire di fronte a quella che sembrava essere per il genitore un’evidenza più che una questione? Il rischio di ammiccare alle sue parole, di colludere con esse buttando lì un capisco è sempre presente. Perché non ratificare l’utilizzo della categoria “iperattivo” alla quale madre sembra riferirsi? Rispondere qualcosa del tipo capisco, Stefano è un iperattivo, soffre dell’ADHD (Attention deficit-hyperactivity disorder) potrebbe rassicurare la madre, la quale probabilmente immaginerebbe di avere a che fare con qualcuno che sa di cosa si stia parlando, che sa il fatto suo.

In realtà l’esperienza dimostra che il riferimento alla diagnosi non costituisce di per sé un indicazione sul cosa fare concretamente; ciononostante è qualcosa che si riscontra frequentemente sia negli operatori dei servizi per l’infanzia (asili, scuole, ospedali, ecc.) sia nei genitori. Intendiamoci, non si tratta di negare l’esistenza dell’iperattività infantile, forse meglio di mettere in questione un utilizzo delle classificazioni che rischia di sostituirle all’effettiva comprensione della logica singolare per cui il sintomo si installa nelle specifiche situazioni.

Se da una parte l’importanza accordata alle diagnosi trova giustificazione nell’ordinamento giuridico che richiede una valutazione per poter accedere ad una serie di prestazioni (per esempio l’assistenza scolastica), dall’altra credo risponda ad una ragione diversa e più scabrosa.

Mio figlio è iperattivo, è solo una metà della questione. Quello che resta sullo sfondo è l’implicazione di chi parla. Se siamo disposti a pensare l’iperattività come una difficoltà che il bambino o l’adolescente incontra nell’entrare a contatto con gli altri e con regole della socialità, ci si deve chiedere con quale altro egli abbia avuto a che fare. Lo sviluppo evidentemente non è un processo autarchico, solitario, al contrario prevede la necessità psichica e fisica della presenza dell’altro, dei genitori nella maggior parte dei casi.

Non si vuole tirare in ballo i genitori con l’intento di colpevolizzarli rispetto al malessere dei figli, non sarebbe né giusto né servirebbe in alcun modo nell’affrontare il problema. Bisogna peraltro aver rispetto delle preoccupazioni, della sofferenza e degli forzi, in ogni caso. D’altra parte sarebbe ugualmente fuorviante non considerare l’incidenza che la madre, il padre o chi per loro hanno sullo sviluppo della soggettività dei minori.

Questo significa che le parole, le decisioni, gli atti, gli esempi lasciano un segno nella storia dei figli. Questo è vero sia per quanto concerne i successi, le ambizioni, l’appassionarsi ad uno sport, alla scuola, alla lettura, alla vita, sia per quanto riguarda la forma che il disagio dei figli può assumere.

Sebbene dunque da un lato sia necessario differenziare i genitori ed i figli come soggetti distinti, ciascuno con le proprie caratteristiche e le proprie difficoltà dall’altro lato è tuttavia importante rilevare come le questioni irrisolte dei genitori possano ritornare, riemergere nei figli.

Ognuno eredita qualcosa dalla propria famiglia, non solo oggetti e somiglianze, ma anche un certo posto che il bambino è chiamato ad abitare. Per quanto esistano contesti migliori di altri in cui crescere, una certa tensione tra ciò che si vuole e quello che l’altro chiede è sempre presente, non solo nell’infanzia. A volte questa dialettica, per diverse ragioni, non trova altro modo per esprimersi se attraverso un sintomo (un mal di testa, una fobia, l’iperattività, un lieve o un grave ritardo nell’apprendimento, gli incubi, l’insonnia, le dimenticanze).

Ritorno alla telefonata, alla domanda sottesa sin dal principio che verso la fine trova le parole per dirsi: puoi darmi un consiglio? Si, posso ho pensato tra me e me, posso provare a spiegarle che quando in una famiglia emerge qualcosa dell’ordine della sofferenza sintomatica in uno dei figli, tanto più quanto più i figli sono piccoli, questa deve essere affrontata attraverso un’implicazione dei genitori. Posso spiegarle insomma che i genitori sono chiamati, dal sintomo del figlio, a mettersi in prima persona nel processo di cura.

Invece ho tenuto queste parole per me, le spiegazioni teoriche sono oltremodo inutili e fuori luogo in questi casi. Ho preferito invece indicarle il numero di telefono di un collega di cui ho fiducia. Nel migliore dei casi la nostra conversazione non cadrà nel vuoto, ella forse telefonerà al collega e lì deciderà come implicarsi nella propria partita e in quella di suo figlio.

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