LECCO – “Riguardo alle frane molto è stato fatto nel lecchese, non si può dire la stessa cosa per fronteggiare le alluvioni”. A parlare è il geologo Roberto Carpi, per 35 anni consulente di società petrolifere tra cui Eni ed Edison ed ora in pensione, residente ad Abbadia, appassionato di montagna e della geologia lecchese, “una delle più complesse ed interessanti” in Italia, come definita dallo stesso esperto.
La primavera passata e l’estate che sta per concludersi non hanno sorpreso il geologo, almeno dal punto di vista dei disastri che sono accaduti in città e provincia, tra smottamenti ed esondazioni di fiumi e torrenti, avvenuti a seguito delle forti precipitazioni che hanno contraddistinto gli ultimi mesi in provincia.
“I pericoli più grandi per il territorio lecchese sono proprio le frane e le alluvioni, al contrario dei rischi sismici che da noi sono praticamente nulli – spiega Carpi – In provincia sono stati cartografati circa 7,2 mila fronti franosi sul foglio geologico, alcuni di questi sono antichi un migliaio di anni e risultano stabili, altri invece si muovono ancora”.
E’ il caso del San Martino dove nell’aprile scorso una frana scesa a pochi passi dalla Statale 36, obbligando alla chiusura preventiva del tratto tra Abbadia e Lecco:
“Si è trattato del crollo di una scarpata rocciosa, che nella casistica rappresenta il 40% degli episodi franosi (il 60% delle volte è dovuto invece al distacco e allo scivolamento di sedimenti recenti) – sottolinea il geologo – Sul San Martino è presente una grossa conoide, larga circa un chilometro quadrato e antica circa 10 mila anni, dove si vanno ad adagiare le rocce. I crolli avvengono con cadenza decennale ma, visti i cambiamenti climatici, potrebbero diventare più frequenti”.
Dicerie popolari indicavano nel San Martino la tomba di Lecco: “Non ci si aspetta un nuovo Vajont perché sul monte lecchese, al contrario del monte Toc, non vi presenza di argille che possano fare da innesco, ma solo rocce calcaree e dolomitiche. E’ difficile che avvengano frane di vaste dimensioni”.
Carpi ricorda anche una curiosità storica su quello che è stato denominato il Monte Marcio: un episodio simile a quanto avvenuto lo scorso aprile successo però nel ‘600, quando una frana fermò i lanzichenecchi ad Abbadia impedendo il loro passaggio verso Lecco. Allora non c’era la Statale 36 e nemmeno l’ANAS.
Ben più tragico, invece, il ricordo di quel 23 febbraio del 1969, quando a causa di uno smottamento sul San Martino persero la vita 7 persone. La più grave delle frane che si sono verificate nel lecchese è stata però quella di Primaluna, nel 1762, che fece un centinaio di vittime.
“Sul fronte della prevenzione delle frane si opera sempre a seguito dell’evento e negli anni tanto è stato fatto sulle montagne lecchesi, con reti e valli paramassi. Siamo invece più impreparati riguardo alle alluvioni e basterebbe monitorare i fiumi e pulire i loro letti da rami e detriti, permettendo quindi il deflusso dell’acqua”.
Lo sanno bene i cittadini di Maggianico che lo scorso 13 agosto si sono trovati sott’acqua a causa dello straripamento del torrente Tuf mentre il rione veniva colpito da un forte temporale; altri episodi di allagamento sono sono verificati anche nell’hinterland della città e nella Brianza lecchese.
“A Maggianico, così come nei paesi di Civate, Malgrate, Valmadrera, occorre intervenire di più per prevenire questi fenomeni. Al contrario si è fatto tanto in Valsassina, territorio soggetto ad un rischio maggiore per presenza del Pioverna e per la conformazione montuosa del territorio”.
Maggianico è risultato essere il rione più colpito dal maltempo di questa estate, con il devastante passaggio di una tromba d’aria e dei vari nubifragi che qui hanno fatto i danni maggiori:
“Molto dipende dalla presenza della falesia del Magnodeno – spiega il geologo – che spinge in quota i venti provenienti da ovest, provocando le cosiddette bombe d’acqua e la formazione di grandine come quella caduta la sera del 10 agosto scorso”.