Suicidio: perchè? Come si spiega? E la scienza cosa sa?

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Intervista allo psicologo e psicoterapeuta Mario Camillo Pigazzini

LECCO – La cronaca delle scorse settimane purtroppo ci ha fatto raccontare ancora di nuovi e drammatici casi di suicidio anche nella nostra provincia, un fenomeno che nel corso della storia dell’uomo si è costantemente registrato.
D’innanzi alla morte volontaria le considerazioni e i giudizi sono sempre stati differenti, a secondo del periodo storico, delle culture, delle tradizioni, delle religioni.
In Occidente davanti all’estremo gesto di una persona solitamente si resta attoniti, increduli, disarmati, impotenti.

Su questo delicato argomento abbiamo voluto aprire un focus per cercare di capire qualcosa di più sotto l’aspetto scientifico. Lo abbiamo fatto bussando alla porta dello psicologo e psicoterapeuta Mario Camillo Pigazzini, membro associato alla Società Italiana di Psicoanalisi, Guest member of the British Psychoanalytic Society, membro associato del Centro studi Sistemi Complessi Non-lineari dell’Università Insubria di Como e già Responsabile del Servizio di Psicologia del Dipartimento di Salute Mentale dell’Ospedale di Lecco fino al 31 marzo 2006.

 

Partiamo dalla domanda che tutti si pongono dinnanzi a un caso di suicidio: perché? Perché una persona decide di congedarsi dal mondo?
In alcuni casi è il suicida stesso che risponde alla domanda, lasciando un biglietto o una lettera, in altri casi questo non avviene. Ovviamente potendo indagare solo a posteriori, a volte ci vogliono mesi prima di scoprire cosa ha messo in moto questo meccanismo. Ricordo di un paziente che era venuto in terapia dopo che era imprevedibilmente sopravvissuto ad un suicidio. Negli incontri successivi mi aveva raccontato che fino a pochi minuti prima di compiere l’atto suicidario non sapeva nemmeno lui che di lì a poco l’avrebbe fatto. Mi ha raccontato di aver sentito questo bisogno impellente, così ha preso l’auto, è andato e ha fatto quello che sentiva di dover fare, con assoluta calma e tranquillità, come se fosse la cosa più semplice da compiere; abbiamo potuto indagare e scoprirne i motivi, svelando che a monte vi era una depressione pregressa ed altri stati di sofferenza mentale. Però, di fatto, l’input al suicidio è partito improvvisamente. Tornado al “perché”, una risposta più appropriata la può dare oggi l’epigenetica, ossia situazioni traumatiche o di persistente sofferenza infantile possono condizionare l’espressione delle componenti genetiche, che possono portare in età adulta a fenomeni depressivi e malattie corporee, ma anche a forme di malattie mentali gravi. Di certo le sofferenze traumatiche ripetute e prolungate, gli stati mentali depressivi e schizofrenici hanno un grosso impatto nella genesi del suicidio. Che cosa poi conduca l’aspirante suicida a compiere il gesto estremo è abbastanza difficile da individuare perché entrano in gioco una molteplicità di fattori: angoscia di vita, paura di non farcela, disperazione, situazioni in cui si perde la speranza e si teme di non riuscire più a vivere, l’onore, la paura, la vergogna, un sentimento di vendetta… Insomma, posso essere tante la cause. A volte lo è anche il ripetersi di fenomeni traumatici in precedenza superati: sesi ripresentano, la persona piuttosto che rivivere i tormenti già vissuti, preferisce morire.

 

La crisi economica finanziaria del nostro tempo quanto incide su una simile scelta?
Tutti i momenti di crisi incidono, perché rendono le situazioni più complesse e difficili. Si perde la capacità di prevedere – non dimentichiamo che antropologicamente l’uomo si differenzia dagli altri esseri superiori per la sua capacità progettuale – e questo influisce parecchio. Noi siamo programmati per prevedere; il senso di responsabilità non è altro che questo: io faccio una scelta e ne prevedo le conseguenze. E’ fondamentale per noi umani. Il nostro cervello è fatto per prevedere e nel momento in cui non riesco più a farlo, dinnanzi a me compare il vuoto, il buio. Possiamo dire che la crisi economico-finanziaria può incidere.

 

E’ possibile spiegare scientificamente quello che accade in coloro che decidono di congedarsi dal mondo?
In parte sì, anche se restano ancora molti aspetti oscuri. In linea di massima possiamo dire che avviene una rottura, quello che, nella fisica quantistica, viene definita de-coerenza. Basta un niente – frase che sentiamo spesso dai nostri pazienti – per far scattare un cambiamento di prospettiva. Questo succede abbastanza facilmente anche in medicina: infarti, ictus, spesso sono imprevedibili. Quante volte abbiamo sentito dire di una persona che appena uscita dall’ospedale dopo una visita al cuore è morta di infarto. La colpa non è della negligenza dei medici, come solitamente si crede e si racconta; ciò avviene perché in quel preciso momento si rompe una situazione di equilibrio, una coerenza appunto, e si viene a creare una decoerenza che determina il decesso. 
Nel nostro cervello, fatto di fenomeni biochimici e biofisici per nulla diverso dal resto del nostro corpo, può accadere la medesima cosa e quando avviene in un determinato modo, questo può portare a compiere un gesto suicidario. Lo studio delle connessioni neurali è appena cominciato – si vedano i progetti di Barack Obama e della Comunità Europea, ma nei prossimi anni di certo ne sapremo di più su che cosa può determinare un collasso mentale o neurale.

 

Quindi il suicidio lo possiamo definire un fenomeno naturale?
Indubbiamente. Il suicidio va smitizzato. Dovrebbe essere ricondotto in una dimensione naturale, come una persona può prendere una broncopolmonite e morire, così una persona può congedarsi dal mondo per sua scelta. L’enfasi sul suicidio è un fenomeno sociale, psicologico che varia a secondo dei diversi contesti: storici, tradizionali, culturali, religiosi. Per questo dico che dobbiamo togliere il suicidio dalla discussione religiosa e magica, dobbiamo liberarci dalla dimensione di peccato con cui molti di noi sono abituati a collocare il suicidio e guardare a coloro che decidono di porre fine alla loro vita in modo libero da condizionamenti di sorta.

 

Che peso ha il concetto di morte nel considerare il suicidio?
Il suicidio è in stretto legame con il concetto di morte. In Occidente la morte viene caricata di significati, nonostante dovrebbe essere considerata in modo naturale in quanto nascita e morte sono due aspetti della vita. Ovviamente, nel corso della nostra vita cerchiamo di vivere il meglio possibile, ma alla fine siamo programmati per morire, quindi dovremmo avere una concezione diversa della morte. 
In passato ho avuto a che fare per lavoro con gli aborigeni dell’Australia e una delle cose che ci rinfacciavano era che noi bianchi abbiamo paura della morte, mentre per loro è una cosa naturale. Gli aborigeni, quando ancora vivevano nelle tribù e non erano stanziali come lo sono ora, si muovevano seguendo le zone d’acqua e succedeva che quando una persona anziana non era più nelle forze di seguire gli spostamenti, veniva salutata. Le si davano delle scorte di cibo e lei rimaneva in tutta tranquillità ad aspettare la sua ora. In Occidente un comportamento simile lo si caricherebbe di molti significati, passerebbe per suicidio o omicidio; per gli aborigeni quella era la cosa più naturale che potesse accadere. Si muore, punto. Del resto, mai nessuno è tornato indietro per dirci cosa c’è dopo la morte.

 

La credenza, soprattutto religiosa, può avere dei benefici per il credente stesso?
Certamente, ma non per tutti. E’ assodato che ognuno di noi ha una parte fragile e debole e quindi ha bisogno di certezze e di rassicurazioni. Ma è altrettanto vero che ci sono persone meno forti e per questo cercano ancore a cui aggrapparsi per superare le difficoltà della vita. Altre persone invece riescono a gestire le difficoltà del vivere con le proprie forze, senza il bisogno di alcun appiglio.
Tuttavia, è anche vero che molte volte un aspirante suicida pur volendo in cuor suo compiere il gesto estremo, riesce a vincere questa spinta proprio in virtù del suo credo. In questo senso, possiamo dire che può avere dei benefici. Poi, però, dovremmo discutere se lo sono effettivamente, ma entriamo in un altro tipo di discorso.

 

Ci sono spiegazioni sulla scelta del modo con cui una persona decide di congedarsi dal mondo?
In passato sono state fatte delle interpretazioni e ne sono emerse delle descrizioni molto belle, che però non sono “spiegazioni”. Rientrano nell’ambito della letteratura, della narrazione psicologica e psichiatrica. Oggi, diversamente da prima, si lavora di più sui dati lasciando alla letteratura le descrizioni fantasiose o elaborative di queste modalità. Si diceva per esempio che chi si impiccava era soffocato dai sensi di colpa, chi si sparava voleva dirigere la propria aggressivita’ contro qualcuno, ma non poteva farlo, e quindi rivolgeva l’arma contro di sé e cosi’ via. Sono interpretazioni legate alla soggettivit; fuori da questo contesto stiamo abbandonando l’interpretazione puntando sull’interazione con il paziente come principale fattore terapeutico.

 

Dare notizia di un suicidio comporta un fenomeno emulativo?
Nascondere i fatti, non parlarne, non è certo il modo migliore per affrontarli. Nel caso dei suicidi è necessario essere prudenti nel raccontare e limitarsi all’essenzialità della notizia. Gli psicologi avrebbero riscontrato una tendenza all’imitazione, all’emulazione, tuttavia non sappiamo dire con certezza se la cosa sia vera o no; non è ancora chiaro, perché le nostre metodologie di ricerca non sono ancora affinate. Quel che è certo, è che il fenomeno del suicidio non dipende dall’imitazione, ma esiste una struttura a monte per cui una persona attua il suo piano suicidario.

 

Esiste quindi un percorso comune compiuto dagli aspiranti suicidi?
No. Non esiste un percorso comune o simile. Ci sono ad esempio persone che pianificano per mesi la propria morte, altre invece prendono la decisione solo pochi minuti prima.

 

Il suicida vuole veramente morire o porre fine ad un dolore insopportabile?
Il suicida vuole morire perché non ce la fa più, perché non riesce a vedere oltre, e anche la nostra presenza a volte non basta per restituire un senso di speranza. Poi esiste tutta una serie di tentati suicidi, soprattutto tra gli adolescenti, che servono per catalizzare l’attenzione degli adulti o accendere i meccanismi di provocazione, di ricatto, con i quali si cerca di spostare una relazione a proprio favore, oppure si cerca di rompere una relazione insopportabile; insomma, c’è tutta una tematica relativa al suicidio come modalità di rottura di una situazione insopportabile e difficile dalla quale non si sa come uscire.

 

D’innanzi al suicidio, le opinioni della gente sono diverse, spesso ci si addossano le colpe, qualcuno incolpa la persona stessa che ha deciso di farla finita, magari per aver lasciato i propri cari nelle difficoltà e nel dolore…
Questo accade perché si giudica e non si cerca di capire. Si sente spesso dire: “Ho fatto tutto il possibile…”; questo viene detto anche nell’ambito del fine vita, quando i parenti spingono affinché si faccia di tutto per tenere in vita il proprio caro, senza pensare al fatto che tutto ciò possa ritorcersi contro la persona che invece, magari, vorrebbe andarsene senza troppe sofferenze. La morte suicidaria e il tema del fine vita rientrano negli stessi parametri. Una persona dovrebbe essere libera di dire “non ce la faccio più”. Mi si ripresenta un’altra esperienza traumatica e quindi pongo fine a tutto. Non si pensi che chi compie l’estremo gesto lo faccia in modo superficiale, anzi c’è una profonda presa di coscienza di sè stessi…

 

Lei ritiene il suicidio il peggiore di tutti i peccati o la massima espressione di libertà?
Non credo nel peccato, ma non direi nemmeno la massima espressione di libertà. E prima ancora, la libertà esiste? Io non porrei la domanda in questi termini… Come ho detto il suicidio a volte nasce da una rottura rapida, imprevista, legata ad interazioni neurali di cui non abbiamo minimamente conoscenza, quindi non c’è libertà; a volte invece sono i condizionamenti sociali o morali ad interferire in maniera forte, quindi di libertà ce n’è poca. Nel suicidio c’è invece una grossa e lunga sofferenza, spesso non esplicitata, che esclude automaticamente la questione del peccato; se poi qualcuno vuole ridurre la discussione a questa dimensione, lascio discutere chi è interessato a farlo, ma penso sia tempo perso, soprattutto non ci aiuta a comprendere questo fenomeno, peraltro non esclusivamente umano.