Lo sport è uno straordinario veicolo per la socializzazione, per favorire l’inclusione sociale, per accorciare le distanze tra le persone provenienti da ambiti lontani (geografici, culturali, religiosi).
Per quanto mi riguarda, la prima esperienza in questo campo è nata molti anni fa in Trentino, a Mis Sagron uno dei comuni più piccoli e sconosciuti d’Italia, dove ancora oggi la neve non cade firmata. La base è semplice; un canestro appeso ad una recinzione (basso e sgangherato), 2 palloni, un gruppo di bambini di varie età e di varie provenienze, un istruttore.
E’ nato per necessità più che per scelta, era impossibile divedere i bambini per età visto il numero esiguo, era impossibile anche pretendere un campo vero. Quel canestro, quei due palloni ci erano stati dati e con questi occorreva arrangiarsi.
Da queste premesse è nata un’esperienza che è durata parecchi anni e che ha lasciato un segno profondo in chi ha partecipato. Non un segno sportivo, non si sono creati campioni, neppure mezzi campioni. Nessuno ha fatto basket agonistico.
Si è creato Altro. Un gruppo, un gruppo vero.
All’interno di quella comunità locale, si è verificato uno scatto di coesione sociale. A distanza di più di 20 anni, queste relazioni continuano… tra i partecipanti, tra le famiglie dei corsisti.
Ho provato molti anni dopo a replicare lo spirito di questa avventura. E’ avvenuto in una scuola di Giussano che si è mostrata interessata e disponibile alla sperimentazione di qualche cosa di diverso, a provare a dare allo sport una coloritura diversa.
Sono ormai 2 anni che il progetto “è solo un gioco, è solo un sogno” raduna quasi 50 bambini di età, vissuti, provenienze geografiche differenti.
L’idea di base è quella che grazie all’esca del gioco-sport, provare a promuovere e di favorire la socializzazione, la coesione l’inclusione sociale.
Per questo motivo è difficile definire che cosa sia davvero questo progetto e questo perché si muove su una linea di confine, si articola su una zona che si potrebbe definire di prossimità: non è infatti un progetto di sport, non è neppure uno progetto di gioco. E’ tutte e due insieme e allo stesso tempo nessuno dei due. E’ un progetto che ibrida lo sport e il gioco con la socialità.
Un progetto che tenta di annodare singolarità e alterità, nel senso più ampio del termine. Un processo che generi integrazione sociale. Vera.
Questa è la scommessa di questo “sogno”: avvicinare dei bambini e le loro famiglie per sviluppare – attraverso il gioco sport – processi di community care per consentire un’inclusione e una valorizzazione di tutti i soggetti coinvolti. Attraverso un piccolo progetto di gioco-sport si mira cioè a concretizzare alcune linee guida individuate già dalla legge 328/2000 e ribadite con maggior precisione dalla Regione Lombardia nel nuovo Piano Socio-Sanitario.
Il progetto si svolge in tre gruppi di massimo 15 partecipati (si sono saturati in pochi giorni i 45 posti disponibili) all’interno della palestra della scuola elementare per favorire l’accoglienza dei bambini più piccoli.
L’attenzione all’aspetto socializzante e il tenere al livello minimo consentito l’aspetto agonistico consente a tutti i bambini, anche a quelli che trovano poco spazio e fanno fatica ad emergere nelle attività agonistiche o semi-agonistiche di soddisfare il proprio bisogno di scarica motoria in un contesto di competizione bassa, ottimo per non alimentare processi ansiogeni. In questo modo si ha la possibilità di porre attenzione a tutti, anche a coloro che non hanno un talento sportivo eccezionale, ma che come tutti necessitano di momenti di attività fisica.
Per questo motivo il gruppo – diretto dall’educatore – è fortemente impostato per rispondere ad una logica inclusiva, nel quale le specifiche (sia i talenti, sia i limiti) di ogni singolo partecipante dovranno essere inglobate e valorizzate dal gruppo.
All’interno del corso, oltre alle attività di gioco che insegnino i rudimenti della pallacanestro si mettere particolare attenzione al fare sperimentare gli allievi con le regole e le limitazioni sono solo dello sport ma anche della vita di gruppo.
Ogni anno viene steso dal gruppo dei partecipanti, insieme all’allenatore/educatore un regolamento interno al quale tutti si debbono attenere. In questo modo si spinge ogni bambino a portare qualche cosa di sé e di confrontarlo con il resto del gruppo.
Alle famiglie viene chiesto di partecipare in modo attivo ad alcune attività previste: un open day nel quale giocare insieme ai bambini, la preparazione di alcune merende che consentano di scoprire gusti provenienti da culture diverse (cibi preparati da alcuni genitori stranieri), la partecipazione di incontri a tema.
Inoltre grazie alla sensibilità e all’attenzione della Pallacanestro Olimpia Milano i bambini e le famiglie hanno potuto assistere ad una partita di serie A all’interno della scuola del tifo, dove si impara a sostenere la squadra con passione e con la guida di educatori professionali.
In questi due anni i risultati ottenuti a livello di ritenzione nel progetto sono altissimi. Nel corso dell’ultimo anno su 45 iscritti solo 2 bambini si sono ritirati dal corso (uno ha cambiato scuola). I bambini che si portavano dietro le stimmate del disagio scolastico (certificazioni di ritardo mentale, di disturbi dell’attenzione, di iperattività) hanno trovato in questa ambito un momento di sfogo e di “pregiudizio positivo” (come ha scritto bene Gianni Ghidini della Fondazione Laureus); si sono sentiti parte di un gruppo, valorizzati nei loro aspetti positivi, messi al centro di un processo non di cura delle sue pecche, delle sue difficoltà, ma delle sue attitudini, dei suoi punti di forza.
Paradigmatica la storia di R. che in questo contesto ha trovato una sua collocazione, uno suo posto, e che grazie all’aiuto dell’allenatore e dei suoi compagni è riuscito a canalizzare la sua iperattività in campo vedendo migliorato il suo stare in gruppo e poi anche se in misura minore anche il rendimento scolastico.
Il progetto è necessario a D. che con il suo ritardo mentale e i suoi problemi psico-fisici non riusciva a trovare uno sport di squadra nel quale poter stare. Sono 2 anni che partecipa e tutti la ricordano per il suo sorriso non per i suoi limiti, le sue difficoltà.
Così come loro altri bambini e bambini “normali” che hanno aiutato i più piccoli, i più in difficoltà hanno portato a casa tanto da questo progetto… hanno provato che il rispetto, la tolleranza, il vedere il positivo nell’Altro sono cose possibili e belle da vivere.
Nel suo piccolo, questo progetto rappresenta un laboratorio che cerca di restituire ai bambini e alle bambini, la magia del giocare insieme, del confrontarsi e del crescere divertendosi. Si vuole dare loro la possibilità di poter sognare, anche se solo per poche ore la settimana. Sperando che con il tempo qualche cosa resti, qualche cosa si sedimenti e germogli.
Perché lo sport – come ci ricorda Pierre De Coubertin – “è una possibile fonte di miglioramento interiore”.
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