RUBRICA – Il benessere – abbiamo argomentato la volta scorsa – ha a che fare con l’espressione delle proprie energie vitali e con la conoscenza di sé. Benessere non nel senso di sperimentare solo emozioni piacevoli – dicevamo – ma nel senso di padroneggiare meglio i propri vissuti collocandoli nella storia personale.
Ma che cosa vuol dire “conoscenza di sé”, formula che ha percorso tutta la storia dell’Occidente sin dalla celeberrima indicazione socratica “Conosci te stesso”? Cerco di rispondere prendendo a prestito una poesia di Alda Merini che, indirettamente, indica un possibile percorso. Il breve testo recita così: “Anche se la finestra è la stessa / non tutti quelli che vi si affacciano / vedono le stesse cose. / La veduta dipende dallo sguardo”.
La veduta dipende dallo sguardo, scrive la poetessa. Charles Sanders Peirce, il padre del pragmatismo in filosofia, potrebbe farle idealmente eco ricordando che qualsiasi “fatto” è già un’interpretazione. Detto in termini più vicini al senso comune, si può dire che osserviamo le cose da un particolare punto di vista, che è inevitabilmente e irrimediabilmente “nostro”. Questo aspetto è talmente scontato e ovvio che non ci fermiamo mai ad analizzarlo. Cioè non ci soffermiamo su quella che è la prospettiva da cui vediamo il mondo. Eppure è centrale nella costruzione del proprio benessere – in termini di consapevolezza – proprio nella misura in cui in quello sguardo c’è tutta la nostra storia, i nostri temi di vita, le linee di frattura, le risorse. In come viviamo un evento, qualsiasi evento, c’è tutta la nostra vita, con la quale impastiamo, e della quale impregniamo, tutto ciò che ci accade.
Provo a chiarire quello che intendo con un esempio molto concreto: diventare genitore. Com’è diventare papà o mamma? Che emozioni suscita? Con che intensità? In quali forme e attraverso quali canali si esprimono? Penso che ci siano tanti modi di vivere questo snodo centrale dell’esistenza quante sono le persone sulla faccia della Terra. Certo, si possono abbozzare discorsi molto generali sull’accudimento, sul cosiddetto istinto materno o paterno, sul senso di inadeguatezza che la nascita di un figlio può andare a toccare, su quello che si deve o non si deve fare…Tutti discorsi molto sensati, per carità, ma c’è un solo modo per fare mio il “diventare genitore”, o meglio, per “diventare il genitore che sono”: osservarmi. “Non pensare ma osserva”, era uno dei motti preferiti del grande Wittgenstein. E c’è poco da aggiungere. Osserva che cosa tocca in te, ossia che cosa suscita negli infiniti episodi e aspetti in cui l’essere padre si declina e come si intreccia con la tua storia. Ossia con il tuo essere stato figlio, con ciò che è mancato a te, che hai da sempre desiderato e mai avuto, con la tenerezza che hai provato in questo e quest’altro episodio, con l’amore che hai dato e ricevuto, con il modo attraverso cui quell’amore è passato (il pupazzo, la partita a briscola tutte le sere, prima di andare letto, la carezza con quella mano lì, e nessun’altra…).
Detto in altri termini, entra nella tua storia, fino in fondo, per quanto ti è possibile articolarla attraverso i modi che la vita ha impresso in te e le parole che ti sono state date per esprimerla. Da lì sarà più facile comprendere… Spesso siamo troppo occupati a giudicare ciò che facciamo e persino ciò che proviamo (e su questo torneremo!) prima ancora di averlo compreso, proprio nel senso letterale del termine, di “contenere in sé”, “abbracciare”, “racchiudere”, “accogliere”. Accogliere – per tornare all’esempio che abbiamo fatto – il bambino che siamo stati e che ancora, in modo imperscrutabile, attraverso un’emotività che ci precede, alberga in noi.
Abbiamo utilizzato un esempio macroscopico, come il diventare genitore, ma – dicevamo in origine – avremmo potuto utilizzare qualsiasi altro tema, micro o macro, perché tutto parla di noi e nulla è emotivamente “neutro”.
Ecco, “diventare ciò che si è” e “conoscersi”, per come io ho fatto mie queste indicazioni attraverso la storia da cui provengo e i maestri che mi hanno condotto per mano fino a qui, significa questo.
Dott. Enrico Bassani
Psicologo – Psicoterapeuta
Via Leonardo da Vinci 15, Lecco
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