Mi è capitato qualche tempo fa di essere invitato a parlare in una circostanza pubblica riguardo il tema dell’autostima. L’occasione era stata una serie di incontri organizzati dal “comitato genitori” di un paese della nostra provincia. Questo gruppo, peraltro animato da persone molto serie e con un forte desiderio di realizzare iniziative interessanti per la loro comunità, decise di affrontare questo tema sulla base della loro percezione e di alcune indicazioni degli insegnanti che concordavano nel valutare la presenza di un problema legato all’autostima in generale negli studenti. L’intenzione del “comitato genitori” era quella di fare qualcosa per promuovere nei propri figli quella che viene comunemente chiamata autostima. L’incontro con l’esperto era dunque uno degli interventi programmati.
Prendo spunto da quella serata per affrontare una questione che spesso si ritrova nei discorsi di genitori, insegnanti, psicologi ed educatori e che nondimeno occupa spazio sugli scaffali delle librerie con titoli più o meno accattivanti riguardanti tecniche e consigli per aumentarla, rinvigorirla, svilupparla.
Il termine autostima, bisogna ammetterlo, possiede un certo fascino. La parola rinvia ad una reale o presunta capacità dell’individuo di disporre di una certa sicurezza, tranquillità, fiducia nei propri mezzi e nelle proprie capacità, quasi indipendentemente dagli altri. L’immaginario ad esso collegato è quello di un uomo, o di una donna, che si basta da sé, che non necessita delle conferme degli altri. Un ideale che prende forme diverse nel campo sociale, dai top manager ai popolarissimi opinion-leader della rete.
Del resto, chi non si è mai trovato a dire ad un figlio o ad un amico “non badare a quello che dicono gli altri” oppure “vai per la tua strada” o ancora “pensa con la tua testa”?
Sicuramente promuovere una certa autonomia di pensiero oltre ad essere un valore è certamente il primo obiettivo dell’azione educativa. In fondo far si che la particolarità di ognuno possa trovare la via per installarsi nell’esistenza dell’individuo, è la responsabilità che implicitamente il dono della vita porta con sé. Questa questione, a mio avviso tutt’altro che banale, implica un impegno da due lati: quello di chi educa e quello di chi è educato.
Il riferimento al rapporto dell’individuo con il proprio altro, primariamente e essenzialmente le persone che vengono incontrate nella propria famiglia, ma anche a scuola, all’oratorio, nel gruppo di amici o in altre istituzioni sociali, è essenziale. Radicalmente non si può concepire un soggetto senza l’altro.
Lo sviluppo del bambino ne è una dimostrazione evidente. Stiamo sul semplice: un neonato senza le cure da parte di qualcuno muore. Il “cucciolo di uomo”, a differenza di altre specie, non è in grado di farcela da solo.
Questa evidenza sul piano reale, trova una corrispondenza altrettanto indiscutibile sul piano psichico. La clinica con i minori da questo punto di vista è esplicativa e al tempo stesso drammatica: se non vi è un investimento psichico, emotivo da parte dell’altro, il bambino va incontro ad ogni genere di difficoltà di cui l’autismo ne è un triste ed estremo esempio. Solo a margine vorrei far notare che, non a caso, autismo e autostima condividono lo stesso prefisso…
Torno alla serata a cui mi sto riferendo, mi ricordo che in quella occasione affermai, in maniera volutamente provocatoria, che l’autostima da sola non esiste. Lo ribadisco, almeno non secondo una prospettiva logica: è irrealistico pensare l’autostima senza che essa sia in un rapporto diretto con quella che potremmo chiamare la stima dell’altro. Anche perché, pensandoci bene, l’autostima slegata dalla stima dell’altro che cos’è se non l’autoreferenzialità se non addirittura il delirio?
Semplificando i termini della questione si può dire che senza un investimento, diciamo affettivo, da parte dell’altro (innanzitutto della madre), l’individuo non può investire affettivamente su sé stesso. Questa precisazione introduce una direzione, una temporalità che differenzia i due poli della relazione. Effettivamente, benché i termini del rapporto siano due, il soggetto e l’altro, la relazione tra essi non è speculare; il primo movimento, cioè l’investimento affettivo dell’altro sul soggetto, precede e rende possibile il secondo, l’autostima appunto.
Questa prospettiva permette di ripensare l’intera questione in termini meno immaginari. Quello a cui spesso si assiste è che se un bambino o un adolescente fatica nel trovare la propria strada, se patisce oltremodo dell’opinione dei propri coetanei o delle persone a lui più vicino, quello che viene indicato come causa è la scarsa autostima e da lì a fare qualcosa per cercare di aumentarla il passo è breve.
D’altra parte l’esperienza insegna che spesso questo tipo di interventi, soprattutto se fondati sulla suggestione del tipo “dai ce la puoi fare!” accompagnata dall’immancabile pacca sulla spalla, porta a risultati incerti e comunque temporanei. In particolare colpisce come spesso gli effetti si esauriscano con il finire del percorso terapeutico o di sostegno che sia. Ci si potrebbe chiedere il perché…
Certo è, che il fatto che si producano effetti duraturi in un soggetto non è una cosa semplice. Migliorare il proprio modo di percepirsi e il proprio modo di rapportarsi con il mondo, nel migliore dei casi, impegna per tutta la vita. Ancora una volta l’esperienza insegna che questo è impossibile senza un lavoro di elaborazione su di sé che necessariamente implica un pensiero sulla propria storia e quindi su quella dell’altro con cui si ha avuto a che fare. In effetti la propria storia risente, nel bene e nel male, della storia dell’altro.
In particolare si deve tenere in considerazione che questo legame è tanto più stretto quanto più i soggetti sono piccoli. Questo ha come conseguenza, per esempio, che gli eventuali percorsi terapeutici debbano coinvolgere principalmente i genitori.
Vado a concludere. Sul finire di quella serata un genitore, forse anche un po’ spazientito dal fatto che io non avessi proposto suggerimenti su come aumentare l’autostima dei sui figli, mi chiese: “e quindi come si faccio ad aumentare la sicurezza di mio figlio?”
Vorrei finire con la stessa risposta che diedi allora: “ non saprei, ha mai pensato perché suo figlio è così insicuro?”
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