Con il nuovo anno, è tempo ormai di bilanci su questo 2013 psico-sportivo. Ho perciò deciso di fare un breve resoconto in 3 punti su quella che, a mio parere, è la realtà della psicologia dello sport in Italia, perlomeno per come la vivo io e da quanto emerso, recentemente, in un incontro al Coni dedicato agli “operatori” del settore.
– Vivo interesse per l’aspetto motivazionale, come arma in più per vincere, da parte di società sportive ed atleti. In Italia siamo indietro, rispetto al resto del mondo, per quanto riguarda la preparazione mentale. Ho notato, però, soprattutto nell’ultimo anno, una sorta di “moda” della preparazione mentale, supportata soprattutto dai media sportivi: diventa così interessante sapere se quell’atleta famoso è seguito dal “motivatore”, quasi come a confermare ai più che anche “l’atleta invincibile” ha bisogno di qualcuno che gli dia la carica, la voglia, la grinta che possono mancare dopo tante battaglie. Se questo ha il vantaggio di mettere sotto i riflettori un surrogato dell’aspetto mentale, ben lontani siamo da quella che, effettivamente, è la preparazione mentale: un allenamento. Non si tratta di dover trovare il qualcosa che non va nelle persone, quanto piuttosto di sviluppare una preparazione completa nello sport. Esiste la psicologia del benessere, volta a migliorare la vita delle persone, ma forse ci piace pensare sempre di avere un male da risolvere… Scherzi a parte, subentra poi un “tranello” nella domanda dell’atleta, che a volte utilizza un pretesto psico-sportivo, per poi invece proporre una problematica di tipo clinico: non è sicuramente un problema per lo psicologo preparato che sa dividere i due piani. Ben diverso è, se questa domanda, viene posta al motivatore/mental coach, che l’atleta in buona fede ritiene essere un professionista della mente, ma che di professione lo psicologo non fa e soprattutto non può e non deve fare.
– Necessitàdi educare gli atleti (e i genitori) da un punto di vista emotivo. Sembrerà inverosimile, ma ho notato come, oggigiorno, stia diventando importante educare alle emozioni. Per tutta una serie di motivi che posso solo provare ad abbozzare legati allo stress, ai nuovi stili di vita sedentari, all’urbanizzazione e allo smog, agli spazi ridotti, all’approccio “a moduli” della giornata, etc. si sta perdendo la naturale spontaneità e congruità delle emozioni, che troppo spesso, risultano essere eccessivamente “cariche di”. Vincere diventa ragione di vita o di morte, non più un semplice momento di felicità da godere, per poi lasciarlo correre via nel flusso delle innumerevoli emozioni (piacevoli e spiacevoli). Perdere diventa umiliazione e dolore, non una semplice constatazione che, così come capiterà spesso nella vita, qualcuno di più bravo esiste e deve essere da stimolo per provarci di più la prossima volta. Là dove poi il genitore potrebbe far molto, ecco che lo vediamo sugli spalti a sbraitare… Ma non vorrei fare demagogia sterile. Infatti mi preoccupano maggiormente quei genitori iper-presenti, che non lasciano spazio al figlio nemmeno in allenamento, quasi come a voler tenere perennemente il controllo di… tutto. Di norma ho sempre un ottimo rapporto con i genitori degli atleti, basato sulla sincerità e su un obiettivo comune: entrambi vogliamo che il figlio si “realizzi” e sviluppi la sua forma di felicità. Perciò, con naturalezza, va spiegato al genitore (che è sempre in buona fede), quando è il caso di modulare la presenza psicologica. Quando le emozioni dei genitori osservatori diventano quelle dei figli, assistiamo ad un’inversione assolutamente errata di quello che dovrebbe essere lo sport: lo sport non deve essere mai di chi guarda e interpreta, ma di chi lo pratica e lo vive.
– Mancanza di soldi (risolvibile) e tempi lunghissimi con le società sportive. C’è infine un aspetto pratico da considerare: lavorare con l’atleta “privato” è più facile, immediato ed efficace, che approcciare ad una società sportiva strutturata. Succede poi un fenomeno strano, che avviene quando è possibile lavorare sul campo: ecco che man mano altri sportivi si interessano alle attività dello psicologo che segue il loro compagno, iniziano a parlargli, gli spiegano le loro difficoltà o aspetti da migliorare, gli chiedono una consulenza e, se non ci sono conflitti di interessi fra gli atleti… lo “ingaggiano”. Così lo psicologo magari lavora in privato con alcuni atleti della società, mentre questa rimane in disparte. Non sarebbe più semplice constatare che c’è un interesse generale sull’argomento e che quindi basterebbe incaricare lo psicologo come società? Con atleti già paganti sai anche che essi non avranno problemi nel farlo attraverso la società, sicuramente con una quota inferiore, ma usufruendo dello stesso servizio. Lo dico sebbene questo pone una riduzione del guadagno del mental trainer, ma francamente ritengo che siano preferibili condizioni di lavoro migliori (migliore organizzazione di turni, orari, luoghi dove praticare), piuttosto che un guadagno superiore. Questo porta a comprendere un ulteriore problema di fondo: tante società sportive sono lente. Vuoi per la struttura, vuoi per la difficoltà di mettere insieme le teste, vuoi perché forse va bene così, tanti interventi risultano essere tardivi, quando ormai la bolla è già scoppiata. Un dirigente, 3 anni fa, mi chiese una consulenza immediata, indispensabile su degli specifici casi nelle giovanili. Non si fece nulla, ma ogni anno mi chiama per ribadire l’importanza di partire con quel progetto… nel frattempo quei ragazzi hanno messo su famiglia e comprato casa Capite bene che i tempi di crescita dei ragazzi sono un vincolo imprescindibile.
Al di là di tutto sono convinto che, finalmente, ci sia il giusto fermento per quando riguarda il settore psico-sportivo. Nonostante le difficoltà in cui si trovano molte società sportive sembra ormai emergere la volontà di sperimentare strade nuove. Quello che tempo fa avevo chiamato il “riciclo culturale”, sta lentamente cedendo il posto ad una maggiore sensibilità di quello che è il mondo attuale, con i suoi pregi e difetti, ma con le sue immense opportunità. Viviamo un periodo storico davvero affascinante, dove piccole ma pazzesche innovazioni ci arrivano in un attimo, cambiando radicalmente le nostre vite.
Il mental training è qui, pronto per noi, sta a noi decidere cosa farne.
BUONE FESTE!
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Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport
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