RUBRICA – Cari amici, mi appresto ad effettuare una piccola sortita enogastronomica in Sicilia, ma dopo aver assaggiato recentemente in più occasioni i vini dell’Etna, affronto subito questo argomento. Va detto che attualmente i vini provenienti dalle pendici del famoso vulcano, soprattutto sul versante rivolto a nord-est tra Randazzo e Linguaglossa, sono molto di moda e qualche esperto del settore si è sbilanciato un po’ troppo definendo questa zona la “Borgogna del Mediterraneo”… mah!
Sta di fatto che i vini dell’Etna esulano dallo stereotipo della maggior parte dei vini siciliani ottenuti da Nero d’Avola o, più recentemente, da vitigni internazionali come lo Chardonnay ed il Viogner per i bianchi o il Syrah ed il Cabernet Sauvignon per i rossi. Questi territori, per troppo tempo trascurati o addirittura dimenticati, stanno fornendo nuova linfa e prestigio al panorama vinicolo regionale; con ogni probabilità fino a qualche anno fa non si era capito fino in fondo l’effettivo potenziale dei vigneti posti su antiche colate laviche e che annoverano anche viti centenarie a “piede franco”, sopravvissute alle stragi provocate dalla fillossera.
Quando poi nel mondo del vino italiano ci si è orientati a dar maggior risalto ai diversi vitigni autoctoni localizzati in piccole aree geografiche, questo potenziale è riemerso.
I vitigni tipici ed esclusivi dell’Etna, protagonisti di questa rinascita, sono il bianco Carricante e l’accoppiata di rossi Nerello mascalese e Nerello cappuccio (o mantellato) che vengono coltivati ad Alberello dai 450 ai 1000 mt. s.l.m. con un’esposizione che garantisce ai vini freschezza, mineralità, eleganza e longevità.
Generalmente i vini bianchi etnei, ottenuti con Carricante in prevalenza e piccole eventuali aggiunte di Catarratto o altri, non sono vini di facile impatto: sono equilibrati più che corposi, freschi e molto sapidi, lievemente aromatici con sfumature floreali e mielate che ti ricordano perfino alcuni Riesling dell’arco alpino.
L’impressione che ho avuto degustandoli è quella che offrono il meglio di sé non nell’immediato ma dal terzo al quinto anno di vita, quando migliora il rapporto tra la morbidezza (mai in evidenza) e l’acidità rafforzata dalla sapidità.
Il bianco dell’Etna che ha fatto da apripista è stato sicuramente il “Pietramarina” di Benanti che si è avvalso della supervisione di Salvo Foti, enologo e guru in diverse aziende siciliane di successo. Poi, piano piano si sono affermati diversi ottimi prodotti, decisamente meno costosi, come quelli di Graci, Cusumano, Cottanera e Terre Nere fino ad arrivare ai nuovi investimenti dei più prestigiosi marchi siciliani come Firriato o Planeta.
Ci sarebbero anche alcune versioni interessanti di Etna rosè ma, come al solito, i rosati suscitano scarso interesse e diverse aziende hanno smesso di produrlo nonostante il Nerello mascalese sia particolarmente adatto a questo tipo di vinificazione: assaggiare i rosati di Graci o di Cottanera per credere.
Decisamente più rilevante la gamma dei rossi dell’Etna, che possono fregiarsi anche della specifica di “superiore”. Anche in questo caso ci sono stati i “pionieri” dell’Etna ad indicare la giusta via da percorrere per esaltare territorio e vitigni, mi riferisco alla cantina Passopisciaro e a Marco de Grazia di Tenuta delle Terre Nere, che addirittura produce quattro Etna superiore (Calderara Sottana- Feudo di Mezzo – Guardiola e Santo Spirito) ed un inarrivabile “Prephillossera” ottenuto solo da viti centenarie a piede franco.
Ora tutto il territorio è stato valorizzato ed il Nerello mascalese, magari esagerando, è visto un po’ come il Pinot Noir della Sicilia. In tutta sincerità, in alcune degustazioni “alla cieca”, sono riuscito a spacciare per Blauburgunder un’eccellente Etna rosso prodotto da un’emergente enologo toscano: il “N’Anticchia di Paolo Caciorgna… che è comunque una bottiglia da oltre 35 euro in enoteca, rendo l’idea?
Le caratteristiche di questi ottimi vini rossi, anche se ho volutamente fatto notare che quelli buoni “costano un cifra”, sono un bel colore rosso rubino trasparente e brillante che accenna all’aranciato con l’invecchiamento; i sentori sono molto intensi, si succedono in ampiezza e profondità le note speziate e quelle fruttate che ricordano il lampone, si prosegue con le sfumature di pietra focaia e grafite per finire con la tostatura rilasciata dalle botti di rovere dove il vino è stato affinato.
Al palato si conferma vino intrigante e complesso, giustamente tannico (quindi piuttosto nervosetto) ma di ottima persistenza e personalità.
Gli ultimi assaggi effettuati riguardano i vini prodotti dai marchi siciliani blasonati come Tasca d’Almerita, Planeta o Duca Salaparuta, ma devo ammettere che nessuno questi m’ha fatto impazzire, sono rimasto entusiasta invece di un Etna rosso che si chiama “Martinella” come la giunonica e simpaticissima titolare dell’azienda Vivera, un vino fantastico a cui ho abbinato il Carpaccio Celtico leggermente affumicato della Prosciutti Marco d’Oggiono per un‘abbinamento che si è rivelato altrettanto fantastico, anche se non proprio “di territorio”.
Assaggiare per credere
Roberto Beccaria
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