La frase che più frequentemente uno psicologo dello sport è abituato a sentire è senza dubbio: “non cosa mi sia preso, non riuscivo a gestire l’ansia”.
Molto spesso essa rappresenta “La domanda”, l’inizio di una richiesta di consulenza in ambito psico-sportivo in cui si ha a che fare con un atleta “in difficoltà”, che non riesce a performare come potrebbe e come saprebbe fare.
Mi sono impegnato per cercare un dato statistico, una percentuale, che potesse definire quanti sono gli sportivi che soffrono di questa “sindrome” (il termine è una provocazione, non prendetemi sul serio!). Non l’ho trovata, ma dopo un’attenta analisi posso provare a sbilanciarmi: il 99%!
Eh sì, chi più e chi meno, certo è che l’ansia è un aspetto viscerale dello sport. C’è sicuramente quell’atleta apparentemente sereno ma che dentro soffre, c’è chi soffre dentro e fuori, c’è chi soffre fuori ma in fin dei conti non soffre così tanto dentro, c’è anche chi non soffre proprio (l’1%), una vera rarità, direi, soprattutto fra le nuove generazioni.
Tutte le prestazioni sportive sono condizionate dall’ansia, ma non crediate che lo siano soltanto da un punto di vista negativo. L’ansia è un motore, forse il più forte e di sicuro il più facile da percepire poichè le sensazioni fisiche e psicologiche che ne derivano non sono trascurabili: cuore, stomaco, muscoli, polmoni, cervello sono direttamente coinvolti con un chiaro e percepibile livello di attivazione. Quando quest’attivazione è eccessiva lo sportivo sarà troppo concentrato sulle sensazioni interiori e questo potrà interferire con la prestazione. Di norma si tende a raffigurare il rapporto fra stress e prestazione sportiva con una sorta di U rovesciata: una bassa attivazione determina una scarsa performance, livelli medi determinano risultati ideali, mentre livelli elevati portano al peggioramento prestazionale.
Un eccessivo livello di ansia può a volte essere erroneamente interpretato come un basso livello di attivazione: questo accade perchè quando lo stress supera il punto di rottura (che è individuale, soggettivo e dipende dai processi interpretativi degli stimoli) e le pressioni, sia interne che esterne, oltrepassano le risorse ecco che lo sportivo va in “choking”: si sente paralizzato, pietrificato, rigido, la visione periferica è ridotta e il gesto atletico diviene stereotipato, privo di adattamenti funzionali. Lo avrete visto (e vissuto) tantissime volte: è il comune fenomeno “dell’andare nel pallone”.
E’ fondamentale saper riconoscere questo tipo di condizione poichè l’intervento per il choking è, di fatto, l’opposto di quello che invece è necessario fare quando vi è mancanza di attivazione. E’ frequente assistere ad errori di valutazione di questo genere: l’allenatore, in buona fede, cerca di spronare l’atleta che sembra essere spento. Magari lo fa anche con fermezza, ottenendo però il risultato opposto poichè il suo tentativo non fa che creare un’ulteriore sovra-attivazione, un’aggiuntiva richiesta di risorse di un atleta già al limite! Ed ecco che lo sportivo performa peggio di prima…
A questo punto rimane il quesito più importante a cui dare una risposta: come si fa a regolare l’attivazione? Come si può controllare l’ansia? Con il pensiero? 🙂
La risposta nel prossimo articolo!
Dott. Mauro Lucchetta
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