Psicologia dello sport e coraggio

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Nei precedenti articoli abbiamo parlato di quanto l’ansia possa inficiare una prestazione sportiva e abbiamo cercato di capire come possa essere gestita e veicolata. Devo essere sincero: gestire l’ansia e’ già di per sè un bel risultato, ma l’atleta che vuole eccellere, quello che vuole cercare di raggiungere il suo top, non può limitarsi alla gestione delle sensazioni, deve anche provare a fare quello scarto in più, a cercare attivamente quello di cui ha bisogno, anche quando non lo trova istantaneamente. Spesso lo si sente dire nei commenti di tecnici e addetti ai lavori: “gli è mancato il coraggio” o all’opposto “è un atleta che sa prendersi le sue responsabilità”.

Ma che cos’è il coraggio? Non è facile dare una risposta, ma di sicuro non è difficile escludere una constatazione: il coraggio non è incoscienza come erroneamente si crede, il vero coraggio è qualcosa di… calcolato. E’ una sottile differenza, una sfumatura difficile da spiegare a parole ma è proprio quello che ci fa reagire in maniera molto diversa osservando il gesto di un atleta: quando il nostro sportivo fa qualcosa di avventato spesso la nostra reazione consiste in una serie di commenti negativi del tipo “ma cosa combina? Ma perchè? Ma noooo!”. Quando l’atleta effettua magari la stessa azione, ma con una chiara presa di coraggio, molto spesso la nostra reazione è più simile ad un “ha fatto bene, dai, avanti così”. E’ una questione di percezione: l’atleta con la sua gestualità sportiva, le sue azioni sul campo, i suoi comportamenti manifesti è in grado di comunicare perfettamente all’osservatore determinate sensazioni (banalizzando possiamo dire che si tratta del linguaggio del suo corpo a parlarci). Il tutto avviene attraverso un dialogo implicito, molto spesso soggetto ad interpretazioni personali (“io l’ho letta così quella situazione”) ma è figlio di un atteggiamento interiore dell’atleta e di norma viene letto correttamente.

Ma a questo punto, cosa prova in realtà l’atleta “coraggioso”?

Usualmente si tende a dire che chi ha coraggio, nutre per se stesso una forte autostima, ha un’elevata resilienza ed ha una personalità che vede il mondo da un punto di vista delle opportunità. Nell’ambito della formazione aziendale (e sportiva), si può riassumente il tutto con il principio di proattività. Cosa significa questo termine? Esso sta ad indicare un atteggiamento interiore che si pone l’obbiettivo di ricercare attivamente le proprie soluzioni piuttosto che aspettare che arrivino da sè: significa osare quel qualcosa quando serve, giocarsi le carte e le risorse fino in fondo. A differenza di una concezione classica di “coraggio = assenza di paura”, in questo caso non si esclude il disagio che può essere vissuto dal soggetto, anzi, l’idea è che egli decida volontariamente di uscire da quella che viene chiamata la zona di comfort, quella condizione in cui io mi sento bene, come quando ad esempio vado ad una riunione di qualsiasi dirigenza e decido di sedermi nella 4a o 5a fila, così toccherà ad altri prendersi il peso e la responsabilità di “stare davanti”, “metterci la faccia”, “essere sotto la lente”. Il proattivo non si pone questi problemi, o meglio, egli vive il disagio come chiunque altro, ma è mosso da un principio: più esco dalla mia zona di comfort e faccio cose “leggermente al di fuori di essa” più con il tempo sarò in grado di considerare nella zona di comfort quelle cose che ora mi spaventano (continuando a farlo, sedersi in prima fila prima o poi non sarà più un problema). Il tutto si gioca in questo semplice atteggiamento, che quando presente, spesso viene anche recepito quasi immediatamente dalla maggior parte degli osservatori. La formazione la chiama proattività, ma è lo stesso principio che possiamo trovare anche nella letteratura classica, nell’idea di “Essere protagonisti della propria vita” molto cara a Manzoni ne “I Promessi Sposi” (del resto siamo anche nella località adatta per parlarne :-)).

Perciò essere certi che il coraggio si può, per così dire, acquisire svolgendo attività di volta in volta sempre più fuori dalla nostra portata, ci permette di capire che tutti possiamo essere, nel nostro piccolo, “coraggiosi”. Fare il compitino, per un atleta del ventunesimo secolo, non può essere più sufficiente oramai: Il livello di ogni sport è talmente elevato che solo un approccio proattivo può permettere di stare al passo con i tempi e con gli sviluppi fisici-tecnici-tatticostrategici-psicologici.

Cominciate con qualcosa di semplice, provate a fare quella cosa che di solito scansate o evitate perchè immaginate che sia un filo al di fuori delle vostre capacità, oppure non faccia per voi, soltanto perchè lo pensate e non perchè avete esperienze negative a riguardo. Mettetevi volontariamente in difficoltà, una difficoltà gestibile, cercate di rendere accettabile il disagio minino e fatelo vostro: vedrete che con il tempo avrete sempre più “fame” di sperimentare attività sempre più difficile e sarete sempre più disposti a farlo… Non è forse questo il coraggio?

Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport

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