Padre Angelo Cupini: da 40 anni al fianco dei giovani

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Padre Angelo Cupini

don Angelo Cupini

LECCO – Si festeggia in questi giorni una grande ricorrenza: quarant’anni di solidarietà e di attività a favore degli ultimi, quarant’anni che hanno permesso di rimettere in carreggiata tante giovani vite, i 40 anni della Comunità di Via Gaggio, l’associazione fondata da Padre Angelo Cupini nel 1975 a Malgrate.

Padre, Angelo Cupini, lo è stato davvero per i tanti giovani tossicodipendenti che a lui si sono affidati in questi anni nel loro percorso di rinascita personale, lontano dalla droga, e per i giovani migranti in cerca di integrazione nella società lecchese, aiutati nella Casa sul Pozzo, il centro fondato dal religioso nel 2006 nel rione lecchese di Chiuso.

E’ lo stesso Cupini a parlarcene in un’intervista che ci ha gentilmente concesso.  

padre Angelo Cupini
Padre Angelo Cupini

La Comunità di via Gaggio spegne quest’anno le sue prime 40 candeline. Come è nata l’idea di fondarla?  Con quali obiettivi è nata?

“Ci sono sogni e passioni che crescono, fiumi nascosti che continuano a portare acqua fino a sgorgare.  L’occasione è stata il Festival  di Montalbano del 1971, organizzato dalla rivista “Re nudo”, dedicato alle culture alternative che si stavano diffondendo tra ragazzi,  idee che rispecchiavano una stagione di cambiamenti profondi. Da lì è nata questa forte attenzione al mondo giovanile.

Insieme a padre Roberto Rocchi, che insegnava religione all’istituto Parini, abbiamo ottenuto il permesso dall’ordine  Missionari Clarettiani di Lierna, da cui provengo, di poter perseguire il progetto di assistenza ai giovani con indicazioni che abbiamo rispettato fino ad oggi,  ovvero che tutto quello che sarebbe stato prodotto non  avrebbe rappresentato l’istituto e che economicamente avremmo dovuto arrangiarci da noi. Da subito abbiamo quindi avuto  bisogno di aiuto e lo abbiamo trovato inizialmente da un nucleo familiare, fino alla firma del primo contratto d’affitto, nell’ottobre del 1975, nell’appartamento di Via Gaggio a Malgrate; da qui il nome della comunità che abbiamo fondato.

Una comunità non comprende solo le persone che abitano nello stesso luogo ma è un insieme di rapporti che crescono e così si è sviluppata la nostra attività che è sempre partita dai giovani, dai problemi che vivevano, non solo legati alle dipendenze  dalle droghe ma anche dai loro  desideri alternativi, dalla voglia di uscire da modelli troppo contenuti, dal dialogo che stavano strutturando con il mondo.  Li abbiamo sempre seguiti, camminando con loro, vivendo sempre più intensamente le loro necessità.

Quali sono state le tappe di questo percorso?

Abbiamo iniziato negli anni delle prime esperienze delle comuni, ne erano state aperte diverse in tutta Italia,  nel lecchese quella di Campsirago, ci siamo confrontati con queste realtà entrando poi a far parte di quello che oggi è il coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza.

Via Gaggio era un appartamento nel quale  abbiamo convissuto con giovani dalle esistenze problematiche e in cerca di orientamento. Abbiamo sempre creduto che il lavoro fosse la prima condizione di autonomia e responsabilità e a quel tempo a Lecco nascevano i primi progetti in favore dei giovani, i primi centri informativi, si sperimentavano attività e laboratori.

Nel 1977 un ragazzo di Valmadrera, uscito dal carcere a San Vittore, ci ha chiesto aiuto per evitare di tornare nel giro della droga  e così abbiamo trovato uno spazio, inizialmente molto precario che abbiamo riorganizzato, ad Introzzo dove tempo dopo hanno convissuto una ventina di giovani con problemi di dipendenza e obiettori di coscienza che facevano servizio dando loro una mano. Introzzo offriva ai ragazzi un momento legato alla ripresa psico-fisica, alla riabilitazione dalle sostanze stupefacenti, partecipando a piccole attività che il paese montano offriva, dagli orti alla legna, all’allevamento,  confondendoci con naturalezza tra gli abitanti del posto.

Nel 1982  abbiamo aperto un secondo spazio nella frazione ellese di  Marconaga che, a differenza di Introzzo, era pensato per consentire una rielaborazione individuale  della vita di ognuno dei ragazzi. Sono seguiti altri progetti legati alle attività di lavoro, un laboratorio di elettrotecnica e di tessitura, la collaborazione con l’acciaieria di via Cattaneo e i pranzi in comune, ospiti di un nucleo familiare del rione di Chiuso.

Questo fino alla metà  degli anni Novanta, quando abbiamo sentito sempre più il bisogno di sviluppare spazi collettivi e di guardare al fenomeno dell’immigrazione,  i cui flussi si erano velocemente triplicati rispetto al passato. Ci siamo chiesti che cosa sarebbe stato di questi giovani senza nessuno che se ne prendesse cura.

La Casa sul Pozzo
La Casa sul Pozzo

 A quel punto è nata la Casa sul Pozzo? Da quanti anni vi siete stabiliti a Chiuso?

Via Gaggio è stata la nostra origine, Chiuso la nostra casa. Per oltre  vent’anni un nucleo familiare del rione è stato punto d’appoggio e di riferimento per la nostra comunità. Sono nove anni che la Casa sul Pozzo svolge la propria attività, incentrata in modo particolare sul progetto “crossing”: la traduzione dall’inglese è incrocio e  abbiamo voluto dare questo nome perché il nostro obiettivo è quello di accompagnare gli adolescenti giunti dall’estero a ricongiungersi con la propria famiglia; successivamente abbiamo accolto ragazzi nati in Italia da nuclei familiari stranieri che  hanno scelto di essere accompagnati nel processo di integrazione.

Quanti giovani ricevono attualmente il vostro aiuto? Quanti i volontari che sostengono la vostra attività?

Si tratta di cento giovani, tra i 14 e i 20 anni, provenienti da una trentina di Paesi del mondo. Una quindicina quelli nati in Italia. Sono invece una quarantina i volontari che seguono l’attività scolastica, 15 si occupano ogni giorno di preparare il pranzo, ci sono poi educatrici e psicologi. Attualmente stiamo vivendo un bel momento con i ragazzi perché abbiamo fortuna di poter stare con loro più a lungo rispetto al passato, ci sono giovani che sono con noi da circa cinque anni, si è creato  un gruppo che sta svolgendo un bel lavoro.

L’immigrazione è il tema principale dell’attualità, si parla di sbarchi, stragi in mare, integrazione. Cosa pensa di sia necessario fare per migliorare la situazione sotto il profilo dell’accoglienza? Come si è trasformata Lecco in questi quarant’anni e quale pensa sia l’atteggiamento dei lecchesi nei confronti di chi viene da fuori?

Pensiamo sempre che lo straniero sia quella persona che arriva da lontano, noi invece ci crediamo immobili, bisogna però mettersi nella logica che anche noi siamo stranieri agli occhi di chi viene qui, viviamo una reciproca difficoltà nel capirci.  E’ necessaria una riflessione collettiva, il cambiamento avviene con la mediazione gomito a gomito.   Se da un lato penso che siamo indietro rispetto ad una valutazione storica, dall’altra credo che la gente abbia un’intelligenza della storia che brucia quella del politico, risponde con un cuore  carico ed intenso. E’ anche un tempo inedito, tutto cambia in modo drammatico e veloce, che richiede risposte nuove. Per questo credo serva uno sforzo collettivo”.

Anche i giovani sono cambiati in questi 40 anni?

Fatico a  dire qual è stata la stagione migliore. Forse oggi i giovani sono più disinibiti e meno combattivi nel abbattere muri già infranti da altri. Siamo partiti dall’alternativa, dai  momenti di tensione degli anni Settanta, dalla rabbia e dalla violenza; ogni stagione ha il suo carico di fatiche e di momenti positivi. Ti lascia perplesso quando certi fenomeni diventano di massa come il consumo delle sostanze stupefacenti solo per il piacere di farlo, in maniera slegata da motivi disagio personale. Credo che i giovani che vivono questi anni siano più fragili ed  abbiano bisogno più che in passato di guardarsi dentro.

Cos’è diventato don Angelo Cupini in questi quarant’anni di cammino con i giovani?

Mi sento in debito con tutti, la vita e ogni incontro mi hanno arricchito di umanità, la gente è stata molto generosa con me e cerco di ricambiare con un grande affetto