“Tu lo devi dire ai genitori! Mauro, glielo devi dire! Devono capire che i bambini, fino agli 11-12 anni non sentono la competizione, non ce l’hanno addosso…”
E’ da questa richiesta di un amico che nasce l’articolo di oggi, seguito spirituale di quello precedente.
Il tutto nasce da un errore di fondo a mio parere: siamo talmente pervasi dalla cultura della competizione, del vincere o perdere, che spesso ci si dimentica che non esiste mai una solo obbiettivo assoluto, ma che piuttosto possono esserci moltissime motivazioni che portano un ragazzino a fare sport.
Invece si è spesso alla ricerca della “manifestazione di superiorità”, come se nel momento in cui il proprio figlio è in grado di primeggiare nello sport rispetto ai suoi compagni e avversari, allora la missione è superata brillantemente. Ma la missione di chi?
Del resto, all’interno di una squadra , ci sarà per forza “il più bravo” e “il meno bravo”, ma ciò cosa vuol dire in concreto? Che gli altri in mezzo stanno in un limbo?
Ascoltare bambini che affermano “io vado lì per vincere, mica sono qua a perdere tempo” mi fa capire come l’aspetto, chiamiamolo “survival” dello sport, abbia preso il sopravvento dalla logica del fare bene per migliorare di giorno in giorno. Mi chiedo quanta frustrazione, quanto dolore, quanta rabbia possano provare nel momento in cui non riescano a primeggiare… Cosa può succedere a chi nello sport sbatte contro tutti i suoi limiti di una battaglia impossibile? La risposta già ce l’abbiamo: burnout e dropout, uno su tre se ben ricordate. Poi per carità, ci becchiamo fra qualche anno per giocare a calcetto.
Un genitore deve far vedere al figlio le innumerevoli possibilità dello sport e non ridurre il gioco ad uno stupido dentro/fuori.
Allo stesso tempo, quando dici ad un bambino “vai a divertirti”, lui probabilmente ti dirà di sì, ma non comprenderà realmente il senso della richiesta. Sarà più facile per lui, invece, sentire l’entusiasmo del pubblico per un’azione ben compiuta, oppure lo sconcerto in caso di un errore. Tutte queste sensazioni vengono assorbite nel tempo dal bambino che pian piano comincia a sviluppare quel principio di competizione, che di fatto è il percepito arrivato da più parti.
Ha ragione quindi il mio amico a sottolineare come, in realtà, il bambino che si affaccia allo sport sia davvero una pagina bianca da un punto di vista aspirazionale e che nel 99% dei casi sono le direttive dall’alto ad inquadrarlo nel mondo sportivo.
Pertanto, il genitore attento, non può limitarsi al mero compitino del “vai e divertiti” perché esiste una sovrastruttura decisamente più efficace dietro, che annulla i messaggi deboli e apparentemente fuori contesto.
E questo io lo vedo anche in società sportive marcatamente di stampo relazionale, non tanto perché non facciano abbastanza a riguardo, ma perché è… inevitabile: bisogna essere particolarmente bravi a limitare un sistema presente in quasi tutti i campetti della domenica e, a volte, la buona volontà non basta.
Gli argomenti non mancherebbero nemmeno, ma forse manca un po’ di efficacia espressiva da parte di mamma e papà che, spesso, non credono loro stessi ai principi “emozionali e relazionali” di cui si fanno portatori. il dialogo è un vagamente subliminale: “vai e divertiti, così puoi farti nuovi amici e ti mantieni in forma… però cerca di vincere, eh!”. Si sente quasi sempre la necessità di andare un pochino in quella direzione, come se si temesse che se non “carichiamo” l’aspetto agonistico allora il ragazzo non performerà per nulla.
Ciò che è certo è che un figlio ha sì bisogno di essere motivato (oggi più che mai i più piccoli tendono a stancarsi in fretta delle richieste dello sport, abituati come sono ad un mondo sedentario) ma di certo non può essere fatto attraverso forme in cui lui si senta in dovere di vincere per poter rendere felici i suoi familiari, o quantomeno non deluderli. Un figlio sa leggere chiaramente i segnali dei genitori pertanto anche solo un leggero disappunto viene colto fra le pieghe del volto di mamma/papà.
Cercherò, nel prossimo articolo, di fornire qualche suggerimento utile al genitore che vorrà provare a cimentarsi in questa sfida di contenuti da trasmettere. Vedremo se sarà possibile porre le basi per un circolo virtuoso.
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Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport
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