Nel precedente articolo abbiamo affrontato una serie di elementi a cui bisogna prestare attenzione quando vogliamo evitare di diventare il nemico di sé stesso, cioè l’atleta che si rema contro, che si autoboicotta, che non si sente a posto e a cui sorge il pensiero del “facciamola finita e andiamo a casa”.
Pensate all’efficacia (negativa) del sopracitato pensiero: quando dentro di noi appaiono queste idee ecco che la nostra prestazione diventa completamente un mera esecuzione stereotipata. Se credete fermamente a quanto appena scritto pensate allora a quanto siamo ingenui a non aver mai considerato il lato opposto della medaglia: così come è possibile decidere di “arrendersi all’avversario”, allora è verosimile che io possa anche decidere di adottare un cambio di rotta inverso, stabilendo quindi di vendere cara la pelle. Non sto dicendo che decretiamo la nostra vittoria, l’obbiettivo non deve essere mai quello di crearsi delle possibili false speranze e il successo non può dipendere solo dalla prestazione psicologica, ma piuttosto di metterci sul piano del “creare le condizioni ideali per vincere, poi so io stesso che potrebbe non bastare, ma di certo otterrò il mio miglior risultato possibile”.
Bisogna lasciare uno spiraglio ed accettare, se si presentasse, la propria possibilità di vittoria (lo so che sembra un assurdo scritto così, ma sono certo che ognuno di voi, chi più o chi meno, ha provato in vita sua a trovarsi nella condizione di decidere di perdere perché era più… facile).
Immaginiamo quindi che, invece di dirsi “ormai ho perso” io affermi “fino all’ultimo punto, l’ultimo secondo, l’ultima buca… userò tutte le mie forze”. Quando questo pensiero ha presa e si concretizza nella pratica di gioco sono abbastanza prevedibili le conseguenze:
1) Sconfitta bruciante: il cambio di rotta non è stato sufficiente, mi sento triste, ma un osservatore esterno avrà avuto modo di notare la differenza di approccio.
2) Sconfitta accettabile: ho perso, ma sono comunque soddisfatto di come ho reagito.
3) Pareggio: qui può esserci la soddisfazione di aver ottenuto un risultato impensabile, oppure il rammarico di non averci creduto abbastanza poichè la vittoria era a portata.
4) Vittoria: grande felicità per l’impresa.
In ognuna delle 4 condizioni è presente un elemento comune: “la differenza”. Nella prima soluzione è meno evidente per chi l’ha vissuta in prima persona, è più facile che la noti un osservatore esterno. Nelle altre condizioni ci sono persino degli elementi positivi per l’atleta stesso. Ciò avviene attraverso un’estemporanea azione di un momento, con una scelta di pensiero.
Ora, proviamo esponenzialmente ad immaginarci come quell’azione possa fare la differenza se quel pensiero si presentasse in noi ogni giorno, ogni mattina ed ogni sera, in un arco di tempo rilevante…
Noi siamo nemici di noi stessi, solo per il fatto che quasi mai decidiamo di esserci amici. Quasi tutti gli sportivi ritengono che la parte mentale sia indispensabile, per poi ignorarla candidamente. E quando è il momento di essere “tenaci e solidi” ci si sfalda soltanto perché 3-4 giudizi dal pubblico, o peggio ancora dagli addetti di corridoio, ci feriscono come se fossimo vulnerabili a qualsiasi pizzicotto. Non so voi, ma a me di perdere o di veder perdere per motivi del genere non piace…
E’ per questa ragione che dedico molto tempo alle sessioni di orientamento del pensiero, allo scopo di non trovarmi mai “da solo” nei momenti chiave. Questo vale per lo sport, ma è altrettanto importante e spendibile nel mondo del lavoro, soprattutto di questi tempi.
Perché ho dato così tanta importanza al pensiero rispetto ad altri elementi citati precedentemente come la camminata, la postura e il dialogo? Semplicemente perché è il fattore più difficile da controllare volontariamente, il meno immediato (nonostante ci caratterizzi in ogni attimo) perché intangibile e di difficile misura (certe decisioni sono per sempre, altre cambiano nel tempo, altre ce le scordiamo proprio!).
Ma se trovate la vostra chiave personale, il vostro modo di funzionare… beh, saranno problemi per gli avversari, quelli là fuori, chiaramente.
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Dott. Mauro Lucchetta – Psicologo dello Sport
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