LECCO – Quando sentiamo nominare l’anatomopatologo spesso la mente corre alla sala anatomica e al medico legale ed è difficile immaginare esattamente quali siano le sue funzioni all’interno di un’azienda ospedaliera. Dedichiamo quindi la ventesima puntata di Day Hospital a questa figura e, in generale, al reparto di Anatomia Patologica dell’ospedale Manzoni di Lecco, alla cui guida si trova da settembre 2012 la dottoressa Emanuela Bonoldi.
“Il primo dato di fatto quando si parla del nostro lavoro – ci dice sin da subito il direttore Bonoldi – è che l’anatomopatologo non rispecchia l’idea di medico che normalmente è presente nell’immaginario collettivo. Noi non visitiamo i pazienti, bensì ci occupiamo delle loro malattie attraverso l’esame delle lesioni che vengono asportate, in tutto circa 50 mila in un anno. Il nostro ruolo è quindi quello di esaminare campioni sia tessutali (esami istologici) che citologici (esami citologici), così da poter formulare una diagnosi. Ciò avviene sia attraverso lo studio della morfologia, ossia della forma delle cellule, sia grazie a tecniche sofisticate come l’immunoistochimica e la biologia molecolare, che ci consentono di rendere precisa e personalizzata la diagnosi”.
E se la diagnosi è personalizzata, altrettanto varrà per la terapia, che sarà pensata su misura per il paziente. Questo, quindi, il lavoro di un’equipe che al Manzoni di Lecco è composta da sette medici, tre biologi, 11 tecnici, quattro amministrativi e due ausiliari, che con mansioni diverse tra loro concorrono a raggiungere questo obiettivo comune: “riconoscere qualcosa che sappiamo – riprende la dottoressa – nei campioni che studiamo e tradurre questo in una diagnosi utile al clinico e, quindi, al paziente. Il reparto – continua – è composto dagli studi medici, dove ognuno di noi passa il suo tempo al microscopio, e da laboratori specializzati per ciascuna tipologia di esame, dove si muovono soprattutto i tecnici di laboratorio per allestire i vetrini da analizzare. Un punto nevralgico è poi la sala microscopia, dove è presente un microscopio multi-teste al quale ci sediamo anche insieme ai clinici per discutere i casi più complessi”.
E proprio l’attenzione alla qualità del lavoro, all’attendibilità della diagnosi formulata, è un punto su cui la dottoressa torna più volte nel corso della nostra chiacchierata: “in caso di patologie maligne, non è mai solo un anatomopatologo a dare il suo parere, bensì due. Inoltre revisioniamo nuovamente il 10 % randomizzato di quei campioni che sono risultati negativi per neoplasia”.
Ma cosa viene riscontrato soprattutto dallo studio dei campioni? “Nella maggior parte dei casi – riprende il direttore del reparto – si tratta di patologie non tumorali, che si risolvono con una adeguata terapia medica. Quando, invece, ci troviamo di fronte a un campione che svela la presenza di una patologia neoplastica, allora diventa necessario un maggiore dispiegamento di forze: oltre alla diagnosi forniamo al clinico indicazioni su fattori prognostici e predittivi. Questo significa che contribuiamo a indicare quale sarà la storia naturale della malattia, quindi come si evolverà, e ad anticipare quale sarà la risposta del paziente a un determinato trattamento, cosa che si traduce nella possibilità concreta di scegliere la terapia più appropriata”.
Non si può tralasciare, poi, il discorso relativo agli screening. A Lecco ne sono infatti attivi tre e si tratta, come si sa, di quello per il cancro della mammella, del grosso intestino e del collo dell’utero. I campioni prelevati mediante l’attività di screening vengono inviati proprio al reparto di Anatomia Patologica, dove ne viene effettuata la diagnosi di benignità o malignità. “La quantità di esami che dobbiamo effettuare – prosegue – è davvero elevata, soprattutto per i primi due screening citati, che registrano una buona adesione da parte dei cittadini. Lo stesso non si può purtroppo dire di quello cervico-vaginale, molto importante ma per il momento meno sentito dalle donne”.
E cosa dire della diagnosi effettuata durante gli interventi operatori? Capita, infatti, che l’anatomopatologo venga chiamato a fornire importanti informazioni in tempo reale, come ad esempio “se si è in presenza di un tumore benigno o maligno o se questo sia stato o meno asportato del tutto. In una decina di minuti – spiega Bonoldi – riusciamo a dare delle indicazioni indispensabili al chirurgo e il numero di esami di questo tipo è pari a circa 1.000 all’anno. Un’altra attività è, poi, rappresentata dal contributo diagnostico che forniamo durante l’espianto di organi e che serve per valutare se questi abbiano o meno tutte le caratteristiche necessarie per funzionare correttamente una volta trapiantati”.
Ma accanto allo studio di lesioni di “persone vive”, rimane infine da affrontare la parte relativa a quello che viene chiamato riscontro diagnostico. A differenza dell’autopsia medico-legale, che è volta esclusivamente a riconoscere la presenza di colpa o dolo, il riscontro diagnostico è “utile a chiarire la causa del decesso mediante una ricostruzione di tutta la vita patologica del paziente e delle alterazioni che le sue malattie hanno prodotto sugli organi, portandolo alla morte. Voglio evidenziare, però – conclude la dottoressa – che questo compito caratterizza una minima parte del nostro lavoro: se, infatti, gli esami sui campioni di pazienti vivi sono circa 50 mila all’anno, quelli sui pazienti deceduti sono solo una cinquantina in tutto”.